Il lavoro è cominciato durante il periodo di reclusione a causa del covid. Ho lavorato al suono del vento, un modo per fare entrare l’esterno all’interno.
La stanza in cui lavoro risuona di sibili e di ululati, l’interno si dilata diventando lo spazio che il vento produce con la sua voce, una voce specifica che fa del vento un’entità distinta con una sua propria vita, volume e potenza. “Ma il vento ha la bocca?” chiedevo con insistenza a mia madre.
Per questo intrido il vento di voci, di note tenute di cori a cappella, vocali allungate, a volte percepibili, a volte invece talmente fuse da rendere difficile la distinzione tra ciò che è vento e ciò che è canto. Cerco un modo antico della percezione, lontano nel tempo e per questo ben radicato nel profondo.
Orizzontalità dello spazio che entra nella stanza portato dal vento.
Verticalità del tempo che sprofonda nei ricordi sepolti.
Il lavoro in cui mi sono immersa durante il periodo di reclusione dovuto alla pandemia ha a che fare con lo spazio esterno in relazione a quello interno, un modo – credo – per elaborare ciò che vivo.
Soggetto è il suono del vento. Il vento è massa d’aria che si sposta e che produce suono solo nel momento in cui incontra ostacoli: le cose, gli alberi, le case. Dal volume del suono possiamo dedurre la potenza.
Il vento ulula quando si insinua negli androni e nelle rampe delle scale, sibila quando passa attraverso le fessure delle finestre, e l’ululato e il sibilo cambiano a seconda dell’ampiezza dei soffitti, delle strettoie dei corridoi, della larghezza delle fessure. Insinuandosi prende la forma delle cose che occupa.
Lavorare con il suono del vento, ascoltando il suono cupo e greve o acuto e penetrante significa far entrare lo spazio esterno all’interno. L’interno si dilata, la stanza in cui lavoro si trasforma letteralmente diventando lo spazio che il vento produce, quella voce che nasce nell’incontro con lo spazio.
I ciechi amano il vento che rende udibile lo spazio che non vedono. Grazie allo spostamento dell’aria sentono la distribuzione delle cose, ne ascoltano la presenza, percepiscono le distanze. Il vento dà voce allo spazio.
Ed ecco che la stanza in cui lavoro diventa satura non solo di suono ma anche di spazio, è lo spazio esterno che è entrato dentro con la sua voce, una voce specifica che fa del vento un’entità distinta con una sua propria vita, volume e potenza. “Ma il vento ha la bocca?” chiedevo con insistenza a mia madre.
Per questo intrido il vento di voci, di note tenute di cori a cappella, vocali allungate, a volte percepibili, a volte invece talmente fuse da rendere difficile la distinzione tra ciò che è vento e ciò che è canto. Cerco un modo antico della percezione e per questo ben radicato nel profondo.
La reclusione forzata credo abbia indirizzato il mio sguardo in modo meno distratto indietro, verso il passato, verso un tempo in cui tutto ha avuto origine.
Orizzontalità dello spazio che entra nella stanza portato dal vento.
Verticalità del tempo che sprofonda nei ricordi sepolti.
mail del 27 marzo 2020 del musicologo Guido Barbieri
Cara Maria Teresa, che bello entrare di nuovo nella tua fabbrica dei suoni, e in quella delle idee… Tra le poche rimaste aperte, direi… Credo di capire quello che dici nello “sproloquio” (che non è affatto tale, ovviamente…): tutti noi siamo costretti a compiere più e più volte, in questa grande stasi di tutte le cose, il canonico “viaggio intorno alla nostra stanza” – come lo ha chiamato De Maistre (nessun libro è tornato ad essere così attuale come il suo…). Al massimo riusciamo ad aprire una finestra e ad allargare appena un po’ il nostro orizzonte, a seconda del paesaggio di cui possiamo disporre (il mio, per dire, in un stradina angusta del centro storico di Ravenna, è assai modesto: un segnale stradale, il muro giallo di una casa, il balcone fiorito di un palazzetto all’angolo). Ma di fatto i due universi, l’interno e l’esterno, non comunicano, non parlano, non battono allo stesso ritmo: le sue mura, la pelle della casa, sono troppo spesse, grezze, per far traspirare il corpo della nostra stanza… E tu invece sei riuscita, in appena tre minuti di suono, a trasformare effettivamente l’interno in un esterno e l’esterno in un interno, a rendere la pelle della casa talmente sottile che il vento si è fatto stanza e la stanza vento. In una perfetta reciprocità. Per un verso – come un Prospero urbano – hai catturare il vento, lo hai imprigionato nel cubo, nel parallelepipedo del tuo habitat, e gli hai impresso inevitabilmente una “forma” (ma se questo torno tra un attimo). Per l’altro, è vero, hai trasformato la tua stanza in una valle, nella sommità di una collina, in un viale: le sue pareti si sono allargate fino a includere quel paesaggio che normalmente la stanza può solo guardare di lontano. E altrettanto inevitabilmente questa trasformazione alchemica ha mutato i parametri del tempo, o meglio le sue immagini. Perché il “viaggio all’interno di una stanza” un tempo non lo possiede o per lo meno è un tempo indefinito, circolare che ricade sempre su stesso. Il vento, invece un tempo ce l’ha e anche molto preciso: spira da est a ovest o da nord a sud, in un tempo perfettamente misurabile e determinato dalla sua velocità. Ma tu, concettualmente hai dato un tempo, quello del vento, al viaggio nella tua stanza, e per converso hai sottratto al vento la sua velocità oggettiva per attribuirgliene una puramente soggettiva. La tua.
Ma al di al di queste considerazioni un po’ astratte, ma “autentiche” (vedi che cosa possono scatenare tre minuti di suono…) quello che mi ha colpito ascoltando il tuo Nuovo Vento è appunto la forma “musicale” che hai impresso al suo corso. Forse inconsapevolmente, o forse no, questo tuo piccolo brano mi sembra perfettamente strutturato secondo i canoni della forma sonata (che poi è una forma universale del discorso, niente di più). Si percepisce nitidamente, nella Esposizione, un primo tema, determinato dal crescendo graduale del suono, e poi un secondo (a circa 43″) che invece è caratterizzato da un rapido crescendo/decrescendo, in una forma che ricorda quella dell’onda. Poco dopo inizia una sorta di Sviluppo (verso 1’30”) che combina tra loro i due tempi principali (comme il faut, del resto) seguito dall’inevitabile Ripresa variata del primo e del secondo tema (a 2’47”) e infine (a 3’14”) attacca la regolare Coda in lento decrescendo… E’ un architettura “solida” che però ovviamente non si sovrappone al suono, anzi lo racchiude, con discrezione, e gli assicura, come accade anche alle opere maggiori, di non soccombere all’evanescenza del tempo. Magari è una lettura un po’ forzata, ma dal momento che l’ho percepita spontaneamente, senza alcuna sovrapposizione artificiale, mi sembra che possa corrispondere, in qualche modo, al procedimento compositivo involontario (o forse no…) che hai seguito. Oppure che la tua memoria – visto l’effetto Sonata di Vinteuil che produce in te la bocca del vento – ti ha dettato…..
Mail del musicologo Guido Barbieri del 13 novembre 2024 sulla versione aggiornata di Nuovo vento:
Cara Meri, si sa che gli artisti sono rabdomanti, che colgono con le antenne del pensiero ciò che gli altri mortali non sentono e non vedono. E questi tre minuti di epifania sonora ne sono, una volta di più, la dimostrazione… Il “tuo” vento che scorre dentro i rami del canto dei Cherubini è un vento nuovo, certo, ma anche, secondo me, sideralmente arcaico. Nella Liturgia ortodossa – come sai – l’Inno dei Cherubini corrisponde all’Offertorio della Liturgia Cristiana ed è il momento in cui i celebranti in corteo portano verso la Protesi (l’Altare) il corpo e il sangue di Cristo per ripetere il rito perenne del sacrificio: il pane sulla patena d’argento e il vino nel calice d’oro. Non è dunque il sacrificio, bensì l’Introito al sacrificio. E insomma un rito “di soglia”. E Cajkovskij, conoscitore profondo della liturgia ortodossa si muove con grande coerenza: fa intonare al coro una melopea lineare e scarna e la tratta secondo i procedimenti, tipicamente processionali, della omofonia e della omoritmia, rifuggendo ogni impropria glorificazione polifonica. Forse a te questo interessa poco, ma il tuo vento (veneziano? ortodosso?) compie esattamente lo stesso rito: è una forza arcaica e primordiale, possiede una voce sola, è inevitabilmente monodico, anche se affidato alla voce corale della natura. E procede, come il canto, solo per variazioni di dinamica, dal piano al forte, o meglio qui, dal mezzo piano al mezzo forte. E la tua intuizione di intarsiare il sibilo acuto alle voci acute e il soffio più grave e profondo ai bassi e ai baritoni è rigorosa e commovente al tempo stesso. Ma ciò che ne risulta – al mio orecchio – è la perfetta aderenza del vento alla forma del rito, come se esso celebrasse una sorta di introitus alla celebrazione “liturgica” della natura. Un sacrificio laico anche se forse imparentato col divino. Scusa, al solito, i pensieri disordinati e istintivi, ma è ciò che avevo voglia di dirti. Un abbraccio, come sempre ammirato. A presto, forse… Guido