Il declino dell’Italia
cantante Andrea Gavagnin
3’12”
2016
lista di parole italiane cadute in disuso, al punto da risultare incomprensibili, cantate sull’aria del Lacrimosa del Requiem di Verdi.
cantante Andrea Gavagnin
3’12”
2016
lista di parole italiane cadute in disuso, al punto da risultare incomprensibili, cantate sull’aria del Lacrimosa del Requiem di Verdi.
cantante: Andrea Gavagnin
durata: 3’12”
2016
Lista di parole italiane cadute in disuso, sino al punto da risultare incomprensibili, cantate sull’aria del Lacrimosa dal Requiem di Giuseppe Verdi
il brano è stato trasmesso: Radio Rai tre, per Stanze d’artista a cura di Guido Barbieri
musica: Stefano Codin
durata: 7’15”
anno: 2008
Il concerto del mondo è il concerto delle lingue del mondo, la cui intrinseca musicalità viene sottolineata dalla traduzione in note dell’andamento della conversazione spontanea tra persone di diversa nazionalità. A seconda della lingua parlata, del timbro della voce, e del tipo di conversazione è stato scelto uno strumento musicale diverso.
Il concerto del mondo è andato in onda su Radio Rai Tre per Stanze d’artista a cura di Guido Barbieri 30 minuti sui lavori sonori di Mariateresa Sartori, 17 agosto 2017
opera sonora, versione radiofonica, durata: 2’12”, anno 2016
Selezione di frasi interrogative pronunciate da Ingrid Bergman doppiata dalla voce di Lydia Simoneschi si susseguono senza soluzione di continuità. Il sotto titolo “Teste calve custodiscono il suono della voce materna” riprende un verso di Wallace Stevens tratto dalla poesia “The woman that had more babies than that”
(…) Diventano vecchi rianimati da una voce materna
Bambini, vecchi e filosofi,
Teste calve che custodiscono il suono della voce materna.
L’io è un chiostro pieno del rumore dei ricordi
E di rumori da tanto tempo dimenticati, come quella voce,
A cui ritornano dopo averla scordata. L’io
Scopre il suono di una voce che lo raddoppia
In immagini di desiderio, in figure che parlano,
In idee che gli vengono sotto forma di parole.
Vecchi e filosofi sono assaliti da questa
Voce materna, luce nella notte (…)
Da The woman that had more Babies than that di Wallace Stevens
Nuovo Vento
Sound work
3’ 32’’
Marzo-aprile 2020
Grazie a Giovanni Dinello e Gustavo Frigerio
In questo periodo di reclusione ho lavorato al suono del vento, un modo per fare entrare l’esterno all’interno.
La stanza in cui lavoro risuona di sibili e di ululati, l’interno si dilata diventando lo spazio che il vento produce con la sua voce, una voce specifica che fa del vento un’entità distinta con una sua propria vita, volume e potenza. “Ma il vento ha la bocca?” chiedevo con insistenza a mia madre.
Per questo intrido il vento di voci, di note tenute di cori a cappella, vocali allungate, a volte percepibili, a volte invece talmente fuse da rendere difficile la distinzione tra ciò che è vento e ciò che è canto. Cerco un modo antico della percezione, lontano nel tempo e per questo ben radicato nel profondo.
Orizzontalità dello spazio che entra nella stanza portato dal vento.
Verticalità del tempo che sprofonda nei ricordi sepolti.
Il lavoro in cui mi sono immersa durante il periodo di reclusione dovuto alla pandemia ha a che fare con lo spazio esterno in relazione a quello interno, un modo – credo – per elaborare ciò che vivo.
Soggetto è il suono del vento. Il vento è massa d’aria che si sposta e che produce suono solo nel momento in cui incontra ostacoli: le cose, gli alberi, le case. Dal volume del suono possiamo dedurre la potenza.
Il vento ulula quando si insinua negli androni e nelle rampe delle scale, sibila quando passa attraverso le fessure delle finestre, e l’ululato e il sibilo cambiano a seconda dell’ampiezza dei soffitti, delle strettoie dei corridoi, della larghezza delle fessure. Insinuandosi prende la forma delle cose che occupa.
Lavorare con il suono del vento, ascoltando il suono cupo e greve o acuto e penetrante significa far entrare lo spazio esterno all’interno. L’interno si dilata, la stanza in cui lavoro si trasforma letteralmente diventando lo spazio che il vento produce, quella voce che nasce nell’incontro con lo spazio.
I ciechi amano il vento che rende udibile lo spazio che non vedono. Grazie allo spostamento dell’aria sentono la distribuzione delle cose, ne ascoltano la presenza, percepiscono le distanze. Il vento dà voce allo spazio.
Ed ecco che la stanza in cui lavoro diventa satura non solo di suono ma anche di spazio, è lo spazio esterno che è entrato dentro con la sua voce, una voce specifica che fa del vento un’entità distinta con una sua propria vita, volume e potenza. “Ma il vento ha la bocca?” chiedevo con insistenza a mia madre.
Per questo intrido il vento di voci, di note tenute di cori a cappella, vocali allungate, a volte percepibili, a volte invece talmente fuse da rendere difficile la distinzione tra ciò che è vento e ciò che è canto. Cerco un modo antico della percezione e per questo ben radicato nel profondo.
La reclusione forzata credo abbia indirizzato il mio sguardo in modo meno distratto indietro, verso il passato, verso un tempo in cui tutto ha avuto origine.
Orizzontalità dello spazio che entra nella stanza portato dal vento.
Verticalità del tempo che sprofonda nei ricordi sepolti.