Alberi Casa Mamma, fotografie stenopeiche, 2016
In Alberi Casa Mamma la meccanicità tipica di molti miei lavori vede la sua attuazione nell’uso della fotografia stenopeica, quella particolare tecnica che si serve di una semplice scatola di cartone con un foro attraverso cui la luce imprime sulla carta fotosensibile l’immagine, un rettangolino fisico di realtà, atto meccanico in grado di produrre documenti, prove dei fatti per un lavoro di indagine che ha per oggetto un luogo e un arco temporale preciso.
In Alberi Casa Mamma la meccanicità tipica di molti miei lavori vede la sua attuazione nell’uso della fotografia stenopeica, quella particolare tecnica che si serve di una semplice scatola di cartone con un foro attraverso cui la luce imprime sulla carta fotosensibile l’immagine, un rettangolino fisico di realtà, atto meccanico in grado di produrre documenti, prove dei fatti per un lavoro di indagine che ha per oggetto un luogo e un arco temporale preciso.
Questo ciclo di fotografie in equilibrio tra razionalità di intenti e riflessione intimista, trae ispirazione da vicende personali e pone al centro dell’interesse il passato. Si tratta infatti di un lavoro sulla memoria, vuol essere la prova che ciò che è stato è stato, e che il mondo esiste.
Incontriamo dunque gli alberi del giardino che potevo osservare dal balcone della casa d’infanzia e che nel corso del tempo sono stati più volte fotografati. Con la tecnica della fotografia stenopeica ho fotografato le vecchie fotografie del giardino, alcuni oggetti della mamma e disegni fatti da lei da bambina. Le immagini ricavate sono trattate al pari di reperti da comporre in vario modo affinché costruiscano via via una narrazione, una versione dei fatti.
La ricerca di oggettività, il tentativo di far scomparire me stessa in quanto autrice grazie alla meccanicità dei procedimenti utilizzati hanno qui il fine di supportare un lavoro poetico alla ricerca di quel che Wallace Stevens chiama “il pino fisico e metafisico”.
Studio G7 ha inaugurato la stagione espositiva con una personale di Mariateresa Sartori intitolata Alberi Casa Mamma: l’artista veneziana, che incentra il suo lavoro sulla concettualizzazione artistica della tensione dell’essere umano verso una conoscenza destinata a rivelarsi sempre incompleta perché fondata su basi irrimediabilmente aleatorie, presenta un recente progetto dedicato alla madre anziana e inferma. Una serie di scatti realizzati con una semplice scatola dotata di foro stenopeico riproducono oggetti, fotografie e documenti prelevati dalla casa di famiglia componendo sequenze di reperti in cui l’oggettività delle testimonianze si disperde e si complica in un flusso emotivo che vanifica l’imparzialità del procedimento iniziale.
Disegni infantili, fiori essiccati, perle, testi scritti a mano su carte di quaderno e calcoli non più riconducibili alla loro funzione pratica si allineano in piccoli riquadri inframmezzati da immagini degli alberi del giardino che con i loro cambiamenti stagionali accennano la scansione temporale di questa fragile narrazione. Se il passato è il rumore bianco della nostra coscienza, l’artista prova a contrastare la sua imprevedibile risonanza isolandone alcune frequenze per interrogarle singolarmente. Smaterializzando i suoi oggetti d’affezione in fotografie volutamente ambigue tra la presa diretta e la scansione di un’immagine già esistente, l’artista li ripresenta come pulsante latenza in scala di grigio che materializza la delicata grana di una visione incerta tra il ricordo e il sogno. Amplificando e auscultando dettagli apparentemente insignificanti di una quotidianità ormai passata Sartori riscopre le sue radici personali per offrire a se stessa e alla madre una nuova ed estrema possibilità di conoscersi e riconoscersi nella condivisione di un inconscio comune. Il dato reale, se considerato come frammento di una memoria che procede per metonimie e analogie secondo coordinate spazio temporali soggettive, diventa quindi il presupposto semantico e la verifica cognitiva di una vita interiore che resiste ad ogni tentativo di sistematizzazione.
A questo modo la catalogazione messa in atto dall’artista accetta la costitutiva inafferrabilità della relazione uomo-mondo e ne trasfigura in poesia i detriti materiali per renderli universalmente esperibili. In assenza di argomenti assoluti sul mistero della vita e della morte la prova che il mondo esiste sta nell’approssimazione tra la costitutiva parzialità della versione dei fatti registrata dalla memoria soggettiva e la costante tensione a oltrepassare l’invalicabile soglia della finitezza umana.
Il superamento del limite è anche il cardine delle due installazioni sonore che accompagnano le immagini della mostra trasformando la visione in una coinvolgente esperienza ambientale. La prima traccia audio, diffusa in stereofonia da due altoparlanti collocati agli angoli opposti della sala espositiva, s’intitola Domande. Teste calve che custodiscono il suono della voce materna e riunisce le frasi interrogative recitate da Ingrid Bergman in alcuni dei suoi film più famosi nella versione italiana doppiata da Lydia Simoneschi. Le domande seguite da silenzi e da rumori casalinghi si trasformano in metafora di un doloroso dialogo a distanza tra la madre resa muta e lontana dalla malattia e la figlia che cerca di indovinarne i pensieri associandoli alle situazioni evocate dalle scene cinematografiche. Nella seconda registrazione da ascoltare in cuffia in una nicchia appartata la dolorosa poesia di Mariangela Gualtieri Preghiera a sua madre perché muoia diventa un soliloquio di coscienza in cui l’indicibilità dei contenuti è affidata ad una voce narrante straniera ignara del terribile significato delle parole che pronuncia.
Anche qui l’artista utilizza procedimenti meccanici e impersonali per far scomparire la propria autorialità e ricondurre la soggettività dell’esperienza individuale a un ordine costituito che per quanto imperscrutabile è l’unico possibile appiglio per metabolizzare l’imminente e inaccettabile perdita. Nominare, catalogare, sistematizzare e ordinare sono prassi conoscitive che assimilano le metodologie dell’arte concettuale a quelle della scienza nell’inesauribile tentativo di cogliere le ragioni profonde del nostro essere al mondo e di lenire la sofferenza che ogni finitezza inevitabilmente comporta.
Mariateresa Sartori. Alberi Casa Mamma
29 ottobre 2016 – 14 gennaio 2017
Galleria Studio G7
Via val d’Aposa 4/A Bologna
recensione di Emanuela Zanon su Juliet, gennaio 2017