Il suono della lingua (versione aggiornata 2023)

 In coproduzione con Habibi Kiosk del Münchner Kammerspiele, Monaco. Collezione permanente Fondazione Querini Stampalia, Venezia, si ringrazia Galleria Michela Rizzo, Venezia

      1. The Sound of Language, updated version 2023

Il Suono della lingua intende sottolineare gli aspetti musicali delle lingue del mondo. Per potersi davvero concentrare su ritmo e melodia è necessario sganciarsi dal significato che altrimenti avrebbe il sopravvento. Ciò che ascoltate è completamente privo di significato. Ogni poesia è stata rielaborata sottraendole significato con un particolare procedimento, mentre accento, lunghezza di ogni singola parola, rima e metrica sono rimaste inalterate. Le lingue sganciate così dal significato ne assumono un altro in termini di puro suono, ritmo e melodia. 

Voci: Vincenzo Arsillo (italiano), Assetou Billa Nonkane (bissa, Burkina Faso), Mathieu Carrière (tedesco), Nicolas Damouni (arabo), Luisandra De Luizinha (portoghese), Manuel Ferreira (spagnolo) , Bakhyt Kenjeev (russo) , Alina Kostiukova (ucraino), Jelena Kuljić (serbo), Patrick Lynch (inglese), Ceren Oran (turco), Celine Valadez (francese), Xu Xuan (cinese), Hiroko Yasuda (giapponese)

Anni fa rimasi profondamente colpita ascoltando alla radio la lettura della Divina Commedia del Sermonti.  Non riuscivo a seguirne il significato in modo preciso, ma mi ritrovai travolta dalla bellezza del suono,  del ritmo  e dell’intonazione. Sentii la bellezza della lingua italiana, della melodia che le è propria, determinata da una certa sequenza sillabica, da una certa accentazione  e intonazione. Riuscire davvero a percepire gli aspetti legati al suono della propria madre lingua è impresa quasi impossibile: il significato prende il sopravvento. Per rendere possibile questa esperienza ho reso irriconoscibile dal punto di vista semantico la poesia Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi,  mantenendone però assolutamente inalterati ritmo, melodia e lunghezza delle parole, spostando le consonanti o all’interno della singola parola o tra parole vicine. Il risultato è qualcosa di assolutamente incomprensibile, ma assurdamente familiare. A questo punto ho chiesto a studiosi stranieri, provenienti da dieci diversi paesi, di scegliere un’opera poetica  nella loro lingua e di elaborarla privandola di significato,  mantenendo ritmo, melodia, metro, rima.  Mi ha sorpreso lo slancio e l’interesse che le persone coinvolte hanno manifestato sin dall’inizio perchè  mi pareva si trattasse di una mia eccentrica passione difficilmente condivisibile. In realtà sotto l’apparente spoglia di una stramberia insensata si celavano (e l’ho capito davvero solo dopo) aspetti serissimi riguardanti alcuni fondamentali processi mentali che sono strettamente connessi con l’origine e che accadono prima dell’avvento del significato. Come diceva Sermonti, il bambino che gioca sul tappeto sente le conversazioni degli adulti e non ne capisce il significato. Percepisce però le modalità del flusso di quella lingua che gli è già enormemente familiare e ne assimila ritmo e intonazione. Questo aspetto della conoscenza mi pare pieno di una sua intrinseca bellezza. Forse è per questo che gli studiosi si sono avventati con bramosia  sulla materia a cui dare nuova vita e che agli attori non sembrò vero di poter dire finalmente cose assurde.

Su RADIO RAI TRE  per Stanze d’artista, programma a cura di Guido Barbieri, 30 minuti dedicati ai lavori sonori di Mariateresa Sartori, 17 agosto 2017 

      2. RADIO RAI TRE Sartori 3

 

 

Mariateresa Sartori, Il suono delle lingua, a cura di Chiara Bertola, Prato: Gli Ori, 2008

 

CHIARA BERTOLA

Ai confini, del significato

19

On the Edge of Meaning

31

MARINA NESPOR

Uri commento linguistico su

Il suono della lingua di Mariateresa Sartori

41

A linguistic observation

on Mariateresa Sartori’s The Sound of Language

47

NICOLA CAMPOCRANDE

Il suono della musica e il suono della lingua

54

The sound of music and the sound of language

57

MARIATERESA SARTORI

Il suono della lingua

62

The Sound of Language

63

MARGHERITA GIGLIOTTI

Nei pensieri c ’è ancora un ’eco

86

There is still an Echo in our Thoughts

87

MARIATERESA SARTORI

Sul suono delle parole (passerei ore ed ore)

88

On the Sounds of Words (I Would Spend Hours and Hours)

90

APPARATI / APPENDIX

93

 

AI CONFINI DEL SIGNIFICATO

CHIARA BERTOLA

La musica sperimentale da tempo ha cercato materiali fuo­ri dall’ambito della notazione musicale tradizionale, pro­ducendo una rivoluzione nel nostro universo sonoro. Ha fatto entrare a pieno titolo rumori, voci, parole e tutto ciò che era suono e vibrazione, facendolo diventare una sostanza viva da plasmare e da modificare. Rotto il tabù della musica come arte trascendentale destinata a passare attraverso la codificazione per essere suonata e ascoltata, si è incominciato a lavorare concretamente sul suono nelle sue componenti fisiche.

Qualcosa di analogo è successo nel mondo dell’arte visiva, dove altre dighe si sono rotte e gli oggetti del quotidiano o le forme del linguaggio, hanno invaso l’orizzonte espressi­vo. La conseguenza di questa “apertura” è che – insieme ad altre forme artistiche quali il teatro, la danza, il cinema – letteratura, arte visiva e musica si sono venute contami­nando, invadendo e confondendo i rispettivi ambiti.

Solo per citare alcuni esempi, vengono in mente le speri­mentazioni portate avanti da quei movimenti che focaliz­zavano l’attenzione sulle «pure valenze espressive del sostrato fonico della lingua»1; artisti che utilizzavano la parola come materiale sonoro nel tentativo di rivitalizzarla, di ridarle l’originaria carica espressiva: Lettrismo, Futuri­smo, Simbolismo, Surrealismo, Dadaismo ecc., per arriva­re alla contemporaneità con le importanti sperimentazioni performative sulla voce e sul linguaggio aperte da Bruce Nauman, da Lamie Anderson, ma anche da Luciano Berio e da Steve Reich nella musica contemporanea… «C’è una certa tendenza a confondere le cose, ad assicurarsi che la gente sappia che si tratta di arte – ha scritto a questo pro­posito Bruce Nauman – mentre l’unica cosa da lare è esporla, lasciare che faccia da sola. Credo che la cosa pili difficile sia presentare un’idea nella maniera più diretta2». In questa prospettiva si colloca il nuovo lavoro di Mariate­resa Sartori. Anche per lei è importante che un dato reale venga messo in alto senza essere controllato e in modo del tutto spontaneo e diretto. [1 suo lavoro video, fotografico, performativo/relazionale, approdato ora alla ricerca sul suono del linguaggio, è stato costantemente rivolto alle relazioni fra gli uomini e alla loro comunicazione, quasi ad attestarne la funzionalità. Ogni sua opera è un passaggio 20 analitico teso a rompere le rigide costrizioni entro cui l’uo­mo ha stabilito i limiti del proprio sapere e del proprio dire. Per lei ogni volta si tratta di riappropriarsi del dato reale, di ciò che apparentemente risulta “bloccato”. Nell’installazione sonora, “Il suono della lingua”, pensata per la Fondazione Querini Stampalia, l’artista porta l’at­tenzione verso il superamento di quel limite che rende opa­ca la nostra percezione. In essa si ritrovano due temi comu­ni a tutto il suo percorso creativo: il primo è il riconosci­mento di un ordine determinato dal “ritmo”, come se die­tro ogni nostra relazione con il mondo o dietro la formazio­ne di ogni possibile bellezza si potesse rinvenire un fonda- mentale principio regolatore che dispone le cose; il secon­do, più nascosto e profondo, è l’individuazione del legame che unisce gli oggetti e l’esperienza dell’uomo alla propria origine, qualcosa di primitivo che risuona in noi avvicinan­doci a quello che «…abbiamo necessariamente perduto in un momento lontano dell infanzia… ».

 

Il suono della lingua

La stanza è oscurata per ottenere concentrazione e intimità a chi vi accede. Dentro si odono suoni di voci che parlano o recitano con una certa enfasi versi poetici in diverse lingue di cui però non si riesce a capire il significato. Nonostante questo, colpisce il senso di grande familiarità che quei suo­ni emanano: sonorità italiane, spagnole, arabe, francesi, e così via per le undici lingue che l’artista ha utilizzato. È come se rimanesse riconoscibile l’aura semantica di ogni singola lingua, una sorta di ombra linguistica che adesso fa da sfondo per far “risuonare”, in primo piano, il dato melodico.

L’artista ha ripulito ogni lingua dalla sua funzione comuni­cativa, in modo che chi l’ascolta può coglierla nel puro rit­mo e nella pura sonorità dei fonemi di cui è composta. «Riuscire a percepire gli aspetti legati al suono della pro­pria lingua madre è impresa quasi impossibile – mi dice Meri in uno dei nostri incontri – il significato prende inevi­tabilmente il sopravvento». Per riuscire ad ascoltare di nuovo il suono del linguaggio, per recuperare tale esperien­za perduta, ha reso irriconoscibili i significati delle parole, operando su alcuni versi poetici particolarmente rappre­sentativi di ciascun idioma prescelto: Leopardi per l’italia­no, Shakespeare per l’inglese, Lermontov per il russo, Her­nández per lo spagnolo ecc. Con l’aiuto di poeti e studiosi ha poi modificato la composizione delle parole – spostando le consonanti o all’interno delia parola stessa o tra quelle vicine – senza però alterarne né il ritmo, né la melodia o la lunghezza.

Vengono in mente le sperimentazioni di un musicista come Steve Reich, anche lui affascinato dal suono delle lingue tanto che ne fa la base per elaborare alcuni brani musicali (cfr. Excerpts from thè cave 1993); nel suo caso, però, si tratta di lingue che, attraverso l’accentuazione dei suono, mettono ancora in evidenza il proprio contenuto semanti­co; oppure si tratta di dialoghi tra strumenti e voce umana dove il significato delle parole ha un ruolo importante e decisivo.

Ciò che interessa a Mariateresa Sartori, invece, è la pecu­liare musica del linguaggio, quel mondo sonoro nascosto che è sfuggito nei secoli alla rigida regolamentazione della notazione musicale. L’artista vuole restituire il più possibi­le la melodia e la musicalità che si trova celata in ogni lin­gua. Per fare questo deve ripulire le parole dalla “distra­zione” del significato e lasciare che i loro aspetti ritmici e melodici, non più soffocati dalla loro finizione denotativa, vengano alla luce.

 

L’importanza del ritmo

L’armonia e il ritmo, come dicevamo prima, svolgono una funzione determinate nelle relazioni tra gli esseri umani; per Sartori essi dettano azioni di comportamento, modula­no la comunicazione, strutturano gli spostamenti dei corpi e delle cose nello spazio. Ed è ancora una questione di rit­mo l ordine che compone la bellezza. Per Meri si tratta sempre di osservare una realtà data, così come si presenta spontaneamente e di «poterne godere il ritmo intrinseco, gli intervalli naturali, la perfezione della regia…». Penso al suo recente video “La misura dello spazio. L’umano conve­gno”, in cui ha ripreso dall’alto l’andare e venire casuale delle persone in uno spazio: anche qui il protagonista è ancora il ritmo, che rende interessante la casualità degli incroci e degli incontri.

Meri mi spiega l’origine della sua passione per il tema del suono della lingua, e mi racconta che quando era bambina rimaneva molto colpita da certi brani musicali tanto da associarli a conversazioni tra strumenti… «ero molto impressionata dal suono delle voci che mi rimanevano impresse come delle ossessioni per molto tempo»; poi mi illustra studi recentissimi che svelano come la comprensio­ne del linguaggio passi attraverso la percezione del ritmo. Un meccanismo evidente in tutte le filastrocche dove il sen­so è secondario mentre fondamentale risulta proprio la rit­micità, la cantilena, la ripetizione, la musicalità… senza di essi la filastrocca non funziona, si dimentica…

Seguendo il progetto di Meri – oltre a venirmi in mente i colori delle VoyeLl.es di Rimbaud – mi sono resa conto di quanti micro-eventi accadono e attraversano il semplice atto del parlare; mi sono accorta del fatto che dentro ogni lingua si distinguono importanti variazioni che non sono solo di pronuncia, ma riguardano molti aspetti – l’altezza tonale, l’intensità, il tempo, il ritmo, le pause – le cui evo­luzioni determinano la melodia del discorso. Allora ho capito che davvero la parola può essere compresa come un evento musicale e ho cominciato a prestare attenzione a certe sonorità che distinguono i linguaggi, di cui prima non avevo coscienza. Ho imparato che responsabile della melodia del discorso è l’altezza delle vocali e che l’intona­zione è uno dei tratti più universali e al tempo stesso una delle caratteristiche che più differenziano una lingua dalle altre. Quando poi l’attore cinese, con cui Meri stava registrando, ha chiesto di rifare un pezzo perché non riusciva a rendere la “curva” che la lingua faceva in un certo pas­saggio, ho letteralmente “visto” l’architettura che si celava dietro quel particolare idioma, una struttura costruita su archi, pareti altissime, lisce, rugose, curve, su architravi e talvolta buchi.

Un altro aspetto di cui l’artista mi ha parlato più volte e che rintraccio come un filo rosso lungo tutta la sua attività è l’importanza di rimettere in moto la spontaneità dei gesti, delle parole e dei movimenti, la loro modalità non-condizionata. Si tratta di un tema che era sotteso al video “Tutte le pause del mondo” dove Meri metteva in evidenza ciò che appariva privo di significato, come i momenti di silenzio in Lina normale conversazione tra persone. In quel caso l’arti­sta voleva mostrare come le pause in realtà portino con sé moltissime informazioni semantiche, intendeva mettere in rilievo quel “ira”, quell’esitazione, quella sospensione che molto spesso sembra trascurabile mentre è il luogo dove si annida il vero senso delle parole. Per lavorare sulle pause, in quel video l’artista aveva dovuto verificare il comporta­mento delle voci, ascoltarle nel loro funzionamento sponta­neo e inconsapevole.

In un’intervista di alcuni anni fa, mi ricordo che Meri sot­tolineava come per lei fosse importante scegliere dei sog­getti (allora dipingeva) che vivessero dentro una loro aura ma soprattutto che fossero “eroici nel senso di non essere assoggettati a niente e nessuno, totalmente affran­cali. Immagini potenti e libere. Nelle sperimentazioni di questi ultimi anni, non si è spostata di molto, nel senso che tutti i suoi video hanno continuato a cercare l’altra faccia di un comportamento, di un linguaggio, di un’esperienza. In fondo anche oggi, con quest’ultimo lavoro, ci chiede di ascoltare le parole senza più nessun assoggettamento, di accoglierle soltanto per il loro suono, di lasciarci portare dall’udito dentro una dimensione dimenticata.

 

Verso qualcosa di originario

E un lavoro che provoca e richiede una relazione intima con coloro che ascoltano, i quali sono seduti al centro di una stanza, al buio, concentrati, predisposti all’ascolto come per la lettura di una poesia. I suoni della lingua, sganciati e liberati dal peso semantico e rivelati nella loro essenza sonora, si sottraggono in qualche modo al tempo e allo spazio. Al di là della loro l’unzione referenziale, quelle lingue risultano affrancate dal peso della “terra” e si con­cedono quale materia viva alla nostra percezione. Esse diventano strumenti per una comunicazione più profonda, riescono a portare l’ascolto in zone remote, verso qualcosa che si era perduto: il timbro originale della lingua materna, «quando la musica delle parole era tutto perché il signifi­cato non aveva ancora spodestato la meraviglia del suono, del ritmo e della melodia…»; ci collocano, dunque, in pros­simità della nostra origine, quella nascita avvenuta prima nel suono che nella vista.

A questo proposito Meri mi ricorda che un bambino quan­do è nella pancia della mamma riesce a discriminare i suo­ni grazie all’organo dell’udito che è perfettamente forma­to. L’udito di un bambino è anzi predisposto per ascoltare lutti i suoni del mondo e la maggior parie delle informa­zioni che egli riceve giungono da questa fonte. Nonostante ciò, l’udito è un senso di cui ci dimentichiamo, privile­giando la vista. Bisognerebbe invece riflettere sul fatto che siamo così sensibili al suono perché in qualche modo è la nostra origine, mentre la vista è imperfetta e impariamo a guardare vivendo. La vista che avrà poi il sopravvento ci parla attraverso un linguaggio consapevole, l’udito, inve­ce, passa attraverso canali sotterranei e non si può con­trollare. Un punto significativo: la vista come qualcosa di controllabile. Penso alla società in cui viviamo oggi, pre­valentemente basata sulle immagini, e il lavoro di que­st’artista, che mi riporta nell’ambito del suono, mi appare ancora più interessante. Il motivo è che si sottrae in questo modo alla noia provocata dalle immagini, e dall’abuso che se ne fa in ogni settore della società. Per Sartori si tratta anche di questo: affermare il primato dell’ascolto contro quello pervasivo delle immagini, delle apparenze. Le pri­me sillabe o parole pronunciate dall’essere umano sono state sicuramente di tipo onomatopeico, ovvero riproduce­vano un suono della natura (il vento, il mare, la piog­gia…) e si può dire che il linguaggio abbia cominciato ad assumere gradualmente una certa forma e ritmo quando gli esseri umani hanno riconosciuto le proprie emozioni e sentito il bisogno di esprimerle. Nella memoria atavica esistono suoni che veicolano sensazioni positive, quali pace, gioia, felicità…; altre che, per contro, inducono con­flitto, angoscia, tristezza… 11 puro suono delle parole ha una tonalità affettiva, un colore, un volume, emana un’aura, evoca immagini, conserva una memoria che ricongiunge con qualcosa che viene da molto lontano. L’OM, nella tradizione sacra orientale, ha una funzione di questo tipo: rievocare il ritmo iniziale della creazione e ricreare un’armonia in se stessi. «Si ricorda quel che dice Darwin della musica? Sostiene che la capacità di eseguirla e di apprezzarla esisteva nella razza umana molto prima che si arrivasse alla facoltà di parlare. Per questo, forse, la musica esercita su ili noi una sottile influenza. Ridesta nella nostra anima vaghi ricordi di quei secoli oscuri agli albori del mondo»”.

In una società che ha disimparato completamente ad ascol­tare può risultar e estremamente significativa un’esperienza artistica come quella proposta dalla Sartori. Rielaborando la lingua come se fosse un mantra e liberandola dalle con­venzioni in cui l’abbiamo sempre costretta, l’artista con­sente di risalire, attraverso l’udito, a qualcosa di originario e dimenticato: il suono puro e antico delle parole, l’espe­rienza grezza del nostro primo contatto con il mondo.

Providence, aprile 2008

 

 

  1. Fernando Dogana, Le parole dell’incanto, Franco Angeli , Milano 1990, p. 347.
  2. Bruce Nauman – Barbara Casavecchia – Elena Volpato, Bruce Nau­man. Inventa e muori Interviste 1967-2001, A&M bookstore, Milano 2005.
  3. Arthur Conan Doyle, Uno studio rosso, in Immagini della mente, Raffello Cortina Editore, Milano 2007, p. 231.

 

UN COMMENTO LINGUISTICO SU

IL SUONO DELLA LINGUA DI MARIATERESA SARTORI

MARINA NESPOR

I have suspected many a time that

meaning is really something added to

verse. I know for a fact that we feel the

beauty of a poem before we even begin

to think of a meaning.

J.L.Borges (2000) This Craft of Verse

 

(Ho avuto molte volte il sospetto che il

significato sia qualcosa aggiunto al ver­-

so. È certo che sentiamo la bellezza di

una poesia prima di cominciare a pen­-

sare al suo significato.)

 

Dal 1967 al 1968, Jorge Luis Borges ha dato le Charles Eliot Norton lectures all’Università di Harvard. Borges stesso non le ha scritte. Sono state trascritte anni dopo da un vecchio nastro su cui erano state registrate da Calin-Andrei Mihailescu e pubblicate nel 2000 da Harvard Uni­versity Press col titolo This Craft of Verse.

Leggiamo quindi che secondo Borges il significato non è essenziale al verso. E il suono che fa la bellezza di una poesia, o meglio che ne è l’ingrediente principale.

E ancora in Epidauro, uno dei racconti dell’Atlante, anch’essi di Borges, si legge:

 

Sin proponérmelo y sin preverlo, lui arrebatado por las dos músicas, la de los instrumentos y la de las palabras, cuyo sentido me era vedado pero no su antigua pasión. [Senza propormelo e senza prevederlo, venni carpito dalle due musiche, quella degli strumenti e quella delle parole, il cui senso mi era vietato, ma non la loro antica passione.]

 

Che sia il suono l’ingrediente più importante della poe­sia lo sanno anche i bambini: molte e forse le più popolari filastrocche che usano i bambini per accompagnare i loro giochi o per fare le conte non hanno significato.

Diamo qualche esempio dall’italiano, dallo spagnolo, dal catalano, dall’olandese e dal l’inglese.

 

in italiano

A liulè che tamusè

che ta prufitta lusinghe,

tulilem blem blum,

tulilem blem blum

 

in spagnolo

Lori bilori

vicente colori

via-via

o este pie

 

in catalano

Uni deri

teri cateri

mata l’amberi

biri biron

 

in olandese

Oze, wiezewoze

Wiezewalle, kristalla

Kristoze, wiezewoze

Wieze, wies, wies, wies, wies

 

in inglese

Eklceri akkery u-kéry an,

Fillisi’ follasy Nicholas John,

Queebee–quabee— Irish Mary,

Stingle ‘em–stangle ‘em–buck!

 

Eppure tutti i bambini le imparano a memoria e le pre­feriscono alle filastrocche con significato. Sembra dunque essere il suono dal significato misterioso che li attrae.

Ma perché ci interessano i bambini? Perché il ritmo, principale ingrediente delle filastrocche, è una delle pro­prietà del linguaggio che impariamo per prime venendo al mondo. E pertanto uno dei più profondamente radicati aspetti della nostra competenza linguistica, come osserva­va già Jakobson. E presente già nel periodo del balbettio, quando nei suoni emessi dagli infanti non è ancora ricono­scibile la struttura delle sillabe.

Queste poesie di non parole create da Mariateresa Sar­tori, in cui è preservata la prosodia della poesia – sia ritmo sia intonazione – ma è oscurato il significato, ci piacciono come ci piacevano un tempo le filastrocche.

Proviamo a vedere perché.

Le poesie sono prese da undici lingue e rappresentano sette gruppi tipologicamente diversi: russo, francese, cine­se, arabo, giapponese, inglese, tedesco, italiano, bissa, una lingua del Burkina Faso, portoghese brasiliano, spagnolo.

Vediamo quali poesie ci piacciono di più, o meglio qua­li ci sembrano più familiari. Saranno, penso, la seconda, la penultima e l’ultima. Ma se facessimo un ulteriore lavoro di trasformazione e rendessimo irriconoscibili anche vocali e consonanti, probabilmente anche la terzultima ci sem­brerebbe familiare, la lingua del Burkina Faso che forse non abbiamo mai sentito. E ci sembrerà più familiare della poesia dell’inglese, lingua che probabilmente abbiamo sen­tito molte volte. Come mai? La causa di tale familiarità non è il gruppo linguistico, cioè l’origine storica comune: il portoghese europeo infatti probabilmente non ci suona familiare. La causa va invece ricercata nel fatto che le lin­gue sono divise in classi a seconda del loro ritmo.1 Borges infatti, quando si dice preso dalla musica di parole che non comprendeva, era ad Epidauro e sentiva una tragedia in greco, lingua il cui ritmo è vicinissimo a quello dello spa­gnolo sudamericano, la sua madrelingua.

Che il ritmo della nostra madrelingua sia profonda­mente radicato nella nostra competenza linguistica, si sen­te bene quando parliamo una lingua straniera che abbiamo imparato dopo la pubertà, specialmente se appartiene ad una classe ritmica diversa da quella dell’italiano, ad esem­pio l’inglese. 0 come ben sentiamo quando un parlante nativo dell’inglese (a parte rari casi singoli di individui particolarmente musicali) parla l’italiano. Non sono solo consonanti e vocali che sono diverse, ma è anche tutto l’an­damento dell’enunciato. Infatti le consonanti e le vocali sono relativamente facili da imparare rispetto alla proso­dia, cioè distribuzione di accenti, toni e durate.

Cosa s’intende per ritmo? La più bella definizione che conosco è quella di Platone: “Ritmo è ordine nel movimen­to”. Data questa definizione è chiaro che il ritmo non caratterizza solo il linguaggio o i fenomeni uditivi, come musica e poesia, ma è ima proprietà che pervade l’univer­so. Accanto al linguaggio, sono ritmiche le onde del mare, i battiti del cuore, i passi di una danza. Ma anche le arcate di un portico o i fiori in una aiuola possono essere organiz­zati in modo ritmico.

Il ritmo, nella lingua parlata, come in musica e in poe­sia, ha un’organizzazione gerarchica. Cosa stabilisce l’ordi­ne del ritmo linguistico ai diversi livelli della gerarchia? Al livello più basso è l’alternanza di vocali e consonanti e in tutti i livelli successivi l’alternanza di sillabe più o meno accentate. 11 ritmo di una lingua come l’inglese, l’olandese o il tedesco è diverso da quello di una lingua come l’italia­no, lo spagnolo o il greco, perché nel secondo gruppo di lin­gue le vocali ricorrono più frequentemente e più regolar­mente che nel primo gruppo. Lloyd James aveva parago­nato il suono dello spagnolo a quello di una mitragliatrice e quello dell’inglese a quello dei messaggi in codice Morse. Questa differenza di ritmo, che tulli riconosciamo chiara­ mente, è dovuta alla diversa complessità sillabica, maggio­re nel primo tipo di lingue che nelle seconde.2 L’inglese ha infatti 16 tipi di sillabe e l’olandese 19, mentre lo spagnolo ne ha 6 e l’italiano 8. La struttura sillabica è la ragione per cui il portoghese europeo non ci suona familiare: nel corso della storia ha ridotto le vocali rendendo cosi la struttura sillabica mollo più complessa di quella dell’italiano.

Il ritmo del linguaggio viene percepito fin dai primi gior­ni di vita: i neonati discriminano il ritmo di lingue di classi ritmiche diverse, ma non distinguono due lingue della stessa classe ritmica. Per esempio distinguono inglese da spagnolo ma non spagnolo da italiano o inglese da olandese. Ciò che sentono è la percentuale di tempo occupata da vocali, i seg­menti più rumorosi del linguaggio e la regolarità della loro occorrenza nel parlato. Vista l’alta percentuale di sillabe for­mate da consonante e vocale (CV) dell’italiano o dello spa­gnolo, la ricorrenza delle vocali è molto regolare. Di conse­guenza in un enunciato italiano c’è più tempo occupato da vocali che in inglese. Questa è la ragione per cui l’italiano, come lo spagnolo, ricorda il suono di una mitragliatrice. Il ritmo dà quindi una chiave alla complessità sillabica, ma anche ad altre proprietà più astratte della lingua.

Togliendo il significato, come ha fatto Mariateresa Sar­tori nelle sue poesie, ci rimane il suono. Cosa ci rimane esattamente di una poesia con un metro fisso quando togliamo il significato? Ci rimane la tensione tra metro e ritmo, che fa sì che capiamo se una persona sta parlando in poesia o no. Per dirla con Zirmunskij, la poesia è il com­promesso che risulta dalla resistenza del medium linguisti­co alle regole dell’organizzazione metrica. La poesia metri­camente organizzata deve per così dire mettere d’accordo due strutture: la struttura prosodica del linguaggio, comu­ne anche al linguaggio quotidiano, e il metro astratto.

Il modello metrico dell’endecasillabo italiano, come quello del pentametro giambico inglese, ambedue esempli­ficati nella poesia di Sartori, è giambico. Il metro di base è cioè formato di cinque piedi in cui una sillaba debole è seguita da una sillaba forte. Da questo metro di base si possono avere poi alcune limitate deviazioni. Essendo la maggioranza dei versi giambici, contrastano perciò col rit­mo della lingua italiana che è trocaico. Anche questa sfasa­tura caratterizza il suono di molta poesia ed è all’origine di alcuni dei vari compromessi cui si riferisce Zirmunskij che un poeta fa quando scrive poesia. Potremmo dire che la bellezza di queste poesie sta nel fatto che non siamo distratti dal significato.

 

  1.  Per il primo suggerimento dell’esistenza di classi ritmiche si veda Lloyd, James A. (1940).
  2.  Per l’identificazione della misura che rende conto di ritmi di base diversi si veda F. Ramus, M. Nespor and J. Mehler (1999).

 

Riferimenti bibliografici

Borges, J.L. (1974) Obras Completas. Buenos Aires. Emecé Edito- res S.A. (Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio. Milano Mondadori. 1985).

Borges, J.L. (2000) This Craft of Verse. Harvard University Press. Jakobson, R, (1968) Child Language, Aplasia, and Phonological universals. The Hague. Molitori.

Lloyd, James A. (1940) Speech Signals in Telephony. Londra. Platone The Laws. Loeb Classical Library. Cambridge, Mass.

Harvard University Press (1926).

Ramus, F., M. Nespor and J. Mehler (1999) Correlates of linguistic rhythm in thè speech signal. Cognition. 73. 265-292. Zirmunskij, V.M. (1966) Introduction to Metrics. The Hague. Mouton.

 

IL SUONO DELLA MUSICA E IL SUONO DELLA LINGUA

NICOLA CAMPOGRANDE

Per quanto possa sembrare curioso, ci sono musiche che non hanno bisogno di un proprio suono. Mi vengono in mente le fughe di Bach, che funzionano sotto i tasti di un clavicemba­lo, con il timbro astral flute o Whistl’n Joe di un sintetizzato­re o nelle versioni vocali degli Swingle Singers. Naturalmen­te, passando da una versione all’altra la nostra percezione cambia, perché cambia la pelle della musica; rimane tutta­via costante la sostanza, lo scheletro portante, il susseguirsi di note e pause, di ritmi e armonie, che in costruzioni di quel genere per noi sembrano essere, tout court, la musica. E dunque il suono diventa un parametro secondario, bello, uti­le, significativo ma secondario.

Ci sono poi musiche che del proprio suono hanno un certo bisogno. Penso alle arie d’opera trascritte per pianoforte, dove il risultato è evidentemente meno interessante dell’ori­ginale ma plausibile: il compositore aveva immaginato una voce insieme all’orchestra, con tutte le eco e i rimandi tim­brici che questo significa, ma la nostra attenzione si focaliz­za comunque sul canto e dunque, se anche si smarrisce la sonorità orchestrale per barattarla con un più austero piano­forte, non direi che si perde tutto: è un compromesso, e tutto sommato accettabile (non solo in passato: si pensi a quando Riccardo Muti nel ‘95 si è seduto al pianoforte e, accompa­gnando i cantanti, ha fatto ugualmente andare in scena La Traviata benché l’orchestra della Scala avesse proclamato tuto sciopero).

Altre musiche non avrebbero senso senza il proprio suono. Il Quartetto di Ravel o una qualunque Sonata di Beethoven sembrano fatte apposta per spiegarlo. In quel caso non si può pensare di sostituire uno strumento con un altro – pra­tica invece diffusissima fino al primo classicismo, quando un violino o un flauto potevano serenamente essere scam­biati a seconda delle contingenze – perché il senso della musica è legato in modo indissolubile al timbro, cioè al suono: quelli sono brani che si suonano così oppure non si suonano. Punto.

Le ultime sono le musiche costruite sul suono. Lì non è que­stione di melodie, armonie e forme: d’investimento è tutto sul timbro, il suono è la musica stessa. Un paradigma è la musi­ca elettronica, dai primordi ai djsmo; un altro il rock, le cui varie sfumature si riconoscono solo per la differenza di sound. E si potrebbero poi far sfilare Webem, certo Debussy, Boulez e con lui una sostanziosa parte della produzione delle vecchie avanguardie.

È questo che hanno in mente i compositori che si mettono ad ascoltare il suono della lingua: sanno che i rapporti tra signi­ficato e significante sono storicamente mutevoli, sanno che l’importanza del contenuto può assumere un valore enorme o scomparire davanti alla bellezza dei giochi fonetici, sanno che le stesse parole d’amore hanno ima forza diversa se pro­nunciate in italiano o in tedesco. E dunque, quando si accin­gono ad utilizzare una lingua per le loro partiture, quando vogliono intonare un testo o desiderano che venga recitato all’interno di un loro lavoro, pensano a quell’oggetto sonoro come a un timbro o a un aggregato di timbri, prima ancora di curarsi della voce che leggerà o canterà il testo.

Non solo: dal suono di una lingua, e soprattutto dal suo rit­mo, i compositori hanno spesso tratto spunto per disegnare le loro melodie intonate: la musica francese suona così come la conosciamo – dolce, sinuosa – perché la lingua francese si pronuncia in quel modo; e lo stesso vale per la velocità e il ritmo dell’inglese, per l’icasticità del tedesco, e così via.

Fino ad un certo punto il principe dei compositori, nell’aderire alle caratteristiche prosodiche della lingua, è stato il ceco Leos Janácek (1854-1928), capace di far cantare i protago­nisti delle sue opere con il ritmo che avrebbero usato parlan­do, ma cavandone musica meravigliosa. Davanti alle sue partitine ascolti musica, ovviamente, ma senti quasi parlale: è bizzarro, e bellissimo.

Dopo di lui, però, quello che ha utilizzato il suono della lin­gua in modo più originale, cercando di penetrarne ed imitar­ne i segreti, è stato Steve Reich (*1936), l’inventore della speech melody, del raddoppio strumentale di una melodia parlata, della quale, mentre la si ascolta in una registrazione, gli strumentisti riproducono, con una sincronizzazione per­fetta, il ritmo e la prosodia. Lo si può ascoltare in Differente Trains, del 1988, dove, grazie all’esecuzione prodigiosamen­te precisa del Kronos Quartet, ogni frase pronunciata da una dorma nella registrazione utilizzata come matrice è raddop­piata dalla viola e ogni frase detta da un uomo ha la sua ombra sonora nei violoncello. Ed è una tecnica alla quale Reich ci ha fatto affezionare, utilizzandola anche nelle video-opere The Cave e Three Tales, e facendone in sostanza una sorta di potente alternativa al canto: non serve più into­nare un testo per farne della musica: basta ascoltarne le microevoluzioni interne, affidarle a uno strumento ed il gio­co di trasformazione è riuscito.

Il lavoro di Mariateresa Sartori appare dunque splendido e intrigante per le orecchie di un compositore, perché toglie di mezzo il significato e permette ad tuia lingua di essere ascol­tala come il suono di se stessa, come una trascrizione musi­cale della sua essenza, quasi come una musica. Il che mi sembra una cosa splendida.

 

IL SUONO DELLA LINGUA

MARIATERESA SARTORI

Anni fa rimasi profondamente colpita ascoltando alla radio la let­tura della Divina Commedia del Sermonti. Non riuscivo a seguirne il significato in modo preciso, ma mi ritrovai travolta dalla bellez­za del suono, del ritmo e dell’intonazione. Sentii la bellezza della lingua italiana, della melodia che le è propria, determinata da una certa sequenza sillabica, da tuia certa accentazione e intonazione. Riuscire davvero a percepire gli aspetti legati al suono della pro­pria madre lingua è impresa quasi impossibile: il significato pren­de il sopravvento.

Per rendere possibile questa esperienza ho reso irriconoscibile dal punto di vista semantico la poesia Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi, mantenendone però assolutamente inalterati ritmo, melodia e lunghezza delle parole, spostando le con­sonanti o all’interno della singola parola o tra parole vicine. Il risul­tato è qualcosa di assolutamente incomprensibile, ma assurdamente familiare. A questo punto ho chiesto a studiosi stranieri, provenienti da dieci diversi paesi, di scegliere un’opera poetica nella loro lingua e di elaborarla privandola di significato, mantenendo ritmo, melo­dia, metro, lima. Mi ha sorpreso lo slancio e l’interesse che le perso­ne coinvolte li anno manifestato sin dall’inizio perché mi pareva si trattasse di ima mia eccentrica passione difficilmente condivisibile. In realtà sotto l’apparente spoglia di una stramberia insensata si celavano (e l’ho capito davvero solo dopo) aspetti serissimi riguar­danti alcuni fondamentali processi mentali che sono strettamente connessi con l’origine e che accadono prima dell’avvento del signifi­cato. Come diceva Sermonti, il bambino che gioca sul tappeto sente le conversazioni degli adulti e non ne capisce il significato. Percepi­sce però le modalità del flusso di quella lingua che gli è già enorme­mente familiare e ne assimila ritmo e intonazione. Questo aspetto della conoscenza mi pare pieno di una sua intrinseca bellezza. Forse è per questo che gli studiosi si sono avventati con bramosia sulla materia a cui dare nuova vita e che agii attori non sembrò vero di poter dire finalmente cose assurde.

 

NEI PENSIERI C’È ANCORA UN’ECO…

MARGHERITA CIGLIOTTI

La prima volta che ho messo mano anzi bocca alla poesia che avevo scelto, ero su un prato di montagna. L’occasione era buona: niente libri, in mente avevo soltanto i primi due versi, quelli che danno il ritmo; i dubbi, che da subito mi avevano dato filo da torcere, me li ero lasciati alle spalle, giù in paese. Potevo quindi allenare i muscoli della lingua, e cominciare a giocare con le lettere, nuvole sfilacciate in un cielo tutto interiore, a prescindere dal loro unirsi per formare “la” lettera. Ovvero quel cumulonembo di preoc­cupazioni che sarà comparso sulla mia fronte una volta tornata a casa, a fare i conti con il testo scritto.

Più in là avrei poi cambiato poesia. Nel frattempo tuttavia tornavo a chiedermi: di ciò che amavo in quel testo, sareb­be rimasta qualche traccia se continuavo a rivoltare rime, rimandi interni, allitterazioni?

L’assillo mi tormentava insieme alle zanzare; le falene sbattevano contro la lampada nel cui cono di luce cercavo di far stare il libro e il foglio. Erano serate calde all’aperto, ormai avevo abbandonato la montagna per la campagna. Ma non erano finite lì, per mia fortuna, le vacanze. Mi rive­do ancora durante un bagno in mare. Riflettevo, è vero, sulla parola “gabbia”: sui movimenti limitati, e non solo dalla gabbia metrica. Intanto però mi lasciavo trasportare su e giù dalle onde. Credo che stessi già pensando alla seconda poesia, al piacere tanto desiderato che proprio li, tra una parola e l’altra, mi aspettava.

Restava soltanto da mettere a punto un verso che non ricordavo. Ero al mare, d’accordo, ma non c’era mica solo acqua intorno a me. Prima o poi sarei pur riuscita a rag­giungere un telefono, un computer, un pronto intervento per una lettrice in vacanza…

 

SUL SUONO DELLE PAROLE (PASSEREI ORE ED ORE)

MARIATERESA SARTORI

La vera meraviglia della poesia (e del canto) consiste pro­prio nell’indissolubile intreccio tra significato e suono, tra prosodia (aspetti ritmici e melodici di cui il metro poetico è parte fondante) e aspetti legali ai significati che le parole evocano. Il mondo dei significati presenta una ricchezza inesauribile e permea l’uomo rendendolo creatura speciale Ira le creature del mondo. Eppure posso tranquillamente ammettere che passerei ore ed ore a tradurre poesie italiane nella lingua dei suoni privi di significato. Anche senza aver studiato mi sento un’esperta nel campo, comunque poco frequentato. Mi dà molla serenità pensare per suoni e non per significato, e quando trovo la giusta sonorità, quella che rispetta più parametri possibili, lunghezza della paro­la, consonante affine per suono, rima, ritmo dell’intera fra­se poetica, allora provo gioia. Senio che tutto combacia misteriosamente, aderisce ad una modalità antica e prima­ria di esperire il mondo, che con il passare del tempo – acquisendo la madrelingua – abbiamo necessariamente perduto in un momento lontano dell’ infanzia, quando il suono delle parole era tutto, perché il significato non aveva spodestato la meraviglia del suono, del ritmo e della melo­dia della parola, della frase, del flusso del discorso. E cosi mi ricordo com’era non capire. Rileggendo la poesia tra­sformala riprovo l’incanto del mondo che arriva per altre strade, (tante! ricche! dolci! inquetanti). Il mondo par­zialmente privo di nomi della primissima infanzia è un mondo emotivamente meno mediato, nel bene e nel male (le parole come filtro, nel bene e nel male).

Eppure a volte, improvvisamente, sentiamo il fascino del suono di alcune parole. Come si può negare la bellezza dei verbi in -are in italiano! Come dare il senso del tempo infi­nito se non con il meraviglioso suffisso ARE? Camminare, andare, guardare, sognare. I verbi della seconda e terza coniugazione, vedere, uscire, servire sono meno impressio­nanti. Quando nelle poesie o nelle canzoni trovo le A aperte di are, verbo all’infinito, si apre il varco verso il mondo del suono senza significato e dalla soglia lo scruto con vertigi­ne. Restare in bilico tra questi due grandi mondi, è entrare in possesso di due diverse chiavi per la ricezione e la com­prensione dell’unico mondo nel quale viviamo.

 

Il Suono della Lingua, 2008, 11 audiolibri,  Fondazione Querini Stampalia, Venezia,  Collezione Fondazione Querini Stampalia, Venezia

Il suono della lingua, Sala dei dizionari, Biblioteca, Fondazion

 

foto Francesco Allegretto

 

Il suono della lingua , one sound track version

progetto Helicotrema

Punta della dogana, Fondazione Pinault, Venezia

foto Mauro Sambo

 

 

 

 

 

Il suono della lingua (versione aggiornata 2023)2023-08-27T20:15:34+00:00

DO infinito

Do infinito, Loop, 2022, registrazione di registrazione da radio

      1. Do infinito

 

 

Tecnicamente si tratta di frammenti di do di petto emessi da cantanti lirici. Si tratta di registrazioni tratte dalla radio che ho ri-registrato per ottenere l’effetto di lontananza, di suono un po’ gracchiante di radiolina lontana.

L’essere passata attraverso la doppia registrazione sposta l’accento dal bel canto, di cui non siamo più in grado di percepire le qualità canore, all’emissione di suono, di fiato umano, e, trattandosi di do di petto, risulta evidente, più di altre note, lo sforzo performativo ed assertivo come manifestazione di potenza.

Il susseguirsi dei do di petto cantati da diversi tenori procede in scala crescente di tenuta, ovvero di durata nel tempo e di volume: l’intento è di passare in modo graduale e quasi inavvertito da una emissione che esprime potenza, arditezza, coraggio ed eroismo insieme, ad un suono che si colora di urgenza, di angoscia, di impotenza, diventando a poco a poco grido di allarme.

E’ un susseguirsi senza pause, senza silenzi, che elimina la fase di inspirazione dell’aria: tutto diventa emissione infinita, al di là del tempo, conducendo in un luogo che non ha inizio né fine: l’opera va a ciclo continuo, così come è proposta alla Galleria Studio G7 di Bologna. La fonte sonora è nascosta, il suono arriva non si sa bene da dove, in un crescendo e in un diminuendo continuo, senza soluzione di continuità.

 

Chigiana Radio Arte, intervista di Federico Fusj a Mariateresa Sartori e Laura Lamonea su Do Infinito, 5 agosto 2022

 

      2. Chigiana radioarte VII 2022, talk - Federuci Fusj - Mariateresa Sartori - Laura Lamonea

 

 

DO infinito2023-02-12T16:11:58+00:00

I PATETICI

 

video, loop, 2018, b/w, sound

with Kiki Dellisanti, Giovanni Dinello, Gustavo Frigerio, Antonella Mancino, Matilde Sambo

camera Furio Ganz, editing Mariateresa Sartori

music from Pyotr Ilych Tchaikovsky, Symphonie No 6 (Pathétique) op.74 in B minor director Yevgeny Mravinsky

thanks to: Ferruccio Busetto, Giorgio Busetto, Augusto Maurandi, Fabio Naccari, Lucia Veronesi, Fondazione Ugo e Olga Levi, Venezia

I Patetici link al video

 

The Pathetics move like puppets with motivations that elude us, passing from joy to despair, from fear to serenity, from aggression to desolation, abruptly, with no apparent motives other than internal ones made manifest by the music. They are driven by unconscious inner drives that determine dynamics, facts and destinies. Everything changes quickly and everything repeats itself in a kind of carousel without beginning or end. This is a work about human nature. We are “The Pathetics”.

 

I PATETICI2022-10-16T19:37:59+00:00

Studio N.10 op.25. Omaggio a Chopin 2021.

 

 

Performers: Gustavo Frigerio Mariateresa Sartori

piano: Vittorio Maggioli

2021

                                                                                                                          ”…you are the music

                                                                                                                    While the music lasts”

                                                                                                                                           T.S. Eliot

Questa nuova versione vede al piano il giovane talento Vittorio Maggioli e, come performers, l’attore Gustavo Frigerio e me. Ho sentito il bisogno di prendere parte attiva, ferma restando la mirabile performance della versione del 2011 con Paola Pasqual e Fausto Sartori. Concettualmente nulla è cambiato rispetto la versione precedente,  per questo allego testi, commenti e recensioni a partire dal 2011.   

 

È sempre stata molto forte per me  sin da ragazzina, la sensazione che certi brani di Chopin fossero dialoghi tra persone, fossero non imitassero o sembrassero. Quest’opera ne è la rappresentazione visiva. La relazione tra musica e linguaggio esalta il valore emozionale della comunicazione, universalmente condiviso, mentre ne occulta il contenuto specifico. La circolarità del brano musicale, che finisce esattamente come inizia, suggerisce una comunicazione tra persone che a nulla approda all’interno di un carosello senza fine. Con  Roman Opałka ci fu uno scambio importante su un punto nodale del video: egli colse ciò che poteva essere fuorviante rispetto al concetto che mi premeva e fu lui a suggerire la soluzione che scioglieva ogni fraintendimento. A Roman Opałka, che non fece in tempo a vederlo con la soluzione da lui suggerita, il video è dedicato.

 

 

Samuel Bordreuil, Mariateresa Sartori: Une main, entre retines et tympans

Kathy Battista, Drawn together: Katie Holten and Mariateresa Sartori

Eleonora Minna, Mariateresa Sartori
You are the music while the music lasts, Galleria Michela Rizzo, Venezia  

 

da:  MARIATERESA SARTORI : UNE MAIN, ENTRE RETINES  ET TYMPANS.

di Samuel Bordreuil, sociologo, già direttore scientifico dell’IMéRA,  Institut d’études avancées d’Aix-Marseille

 

 « Entre rétines et tympans : ouvrez les vannes, toutes les vannes ! » 

 

Du divorce entre langage et musique et, en sous main, parce qu’il y va d’un clivage entre sonore et visuel, c’est peu dire que Mariateresa Sartori n’en n’ait jamais fait le deuil ! Deux de ces travaux précédents en sont en tout cas hantés : celui sur le « son de la langue », qui ravive les musiques propres à chaque langue ; celui sur « toutes les pauses du monde », qui exhausse la musicalité propre à chaque interlocution, en l’occurrence, les scansions, sonores, gestuelles d’un exercice familier, celui du « penser ensemble ».

Cette nostalgie de la musique dans la langue  on aurait tort de ne pas la prendre au sérieux ! C’est qu’elle fait revenir des états de conscience qui, bien qu’éloignés de nos sens, n’en sont pas moins là, encore, et « tout proches ». Cela peut se dire au plan « ontogénétique », au sens où la mémoire de la musique de la langue est ce par quoi, comme « petits d’homme », nous sommes tous entrés dans sa maîtrise (au prix, certes, de son oubli !)[7] Mais aussi au plan « phylogénétique » au sens où, à suivre Tim Ingold[8], il a en effet fallu attendre le milieu du moyen âge (post 11ème siècle) pour que le sens de  la notation musicale s’émancipe de la prosodie, la musique de la langue[9], en neutralisant la musicalité et libérant par contre coup la musique comme réceptacle de toutes les sonorités instrumentales, les voix étant priées de suivre, et leur heure venue … Sait-on, à ce propos et par exemple, que les premiers marqueurs d’inflexions musicales (utilisés dans les partitions) dont se servaient les pratiquants du « chant grégorien » étaient tout droit importés des marqueurs destinés à guider des proférations déclamatoires ; rien d’autre que des outils de l’art rhétorique ! …

En tout cas, l’accent des trois dernières pièces exposées de MTS s’en déduit : exhiber, raviver le sens que les alliages du sonore et du visuel régissent notre rapport au monde. Et pour ce faire, travailler avec minutie et ténacité sur deux lignes de flux, visuels et sonores – en fait, les « composer » dans un même espace réceptif. Dans ces trois pièces on verra que ce travail de composition « audio-visuelle », consiste surtout à plier le visuel sur le sonore ; mais on relèvera que les flux visuels qui entrent dans ces pièces sont parfois pré donnés, comme dans « Sol Majeur », le travail de l’artiste étant alors un travail de retouche et de montage ; mais parfois ne le sont pas, laissant à l’artiste un espace de liberté considérable quant à la création de ces lignes visuelles.

(…….)

Que « Omaggio » reprenne ce même thème, on le relèvera simplement à partir du fait que l’illusion – magistrale – dans laquelle il nous aspire, eh bien elle n’est ni simplement sonore ou visuelle : elle exige au contraire pour sa prospérité l’exercice conjoint de ces deux sens !

On pourrait prendre cette pièce au plus humble, voire au plus ingrat. Ne la considérer comme rien d’autre qu’un problème de « doublage », comme au cinéma. Le problème du doubleur, celui qui est chargé de véhiculer un même sens expressif d’une langue 1 à une langue 2, est celui de conserver le sens, certes, mais en trouvant un équivalent linguistique, dans la langue 2, qui conserve l’identité rythmique de la profération du message … ce qui l’amènera très souvent à « gauchir » l’expression et à sacrifier une énonciation, certes vernaculaire – mais « out of synch » – au profit d’une autre, plus raccord du point de vue du débit verbal, mais un peu lâche du point de vue du sens[10].

A situer la pièce sur cet arrière plan, on voit bien ce qu’elle a en commun avec cet exercice – cette attention implacable aux mouvements des lèvres – mais aussi en quoi elle l’excède, résolument. Pour commencer, la langue 1 n’existe pas : sauf à soutenir qu’un « langage piano forte » existerait. Abondance, avalanche, de croches, demi croches et triple croches, certes, mais qui ne viennent coder là aucun sens. D’où la latitude sémantique offerte dans les proférations verbales  « raccords » avec la ligne musicale ! Mais cette latitude est le revers d’une médaille : délié de tout impératif de sens, imaginez un peu le « n’importe quoi » (sémantique) qui sort de ces bouches et la contrainte, qui pèse sur les acteurs, de les proférer quand même et malgré tout et avec toute la conviction requise. Ce qu’ils se disent, en rafales nerveuses, on ne le saura jamais et, nous dit MTS, même à sa mère elle ne le dira pas ! Ne pas insister, donc ! Plutôt se complaire dans la félicité d’une illusion, et d’autant que l’on voit/entend bien qu’elle est parfaitement réussie !

L’effet résultant ? On propose de le dire d’un mot: saisissant ! Et pour la double capture, le double rapt, qui s’y opère entre lignes visuelles et lignes musicales. Qui, quoi « happe » quoi ? Voilà peut-être son oscillation, son vertige central. Sont-ce les notes piano qui subtilisent des voix, à peine sorties et qui « n’en peuvent mais » ? Ou bien, ne serait-ce pas plutôt ces voix qui gonflent de leurs souffles, de leurs nuées d’orage, les voiles de l’allant pianistique, faisant remonter le fait que, autre chose que d’expressions d’humeurs, ni il ne l’a été, ni il ne le sera, cet « allant » …

La chose est encore plus fascinante du fait que la ligne visuelle, dans sa pureté formelle (profils, symétrie entre ceux ci), exhausse la nature parfaitement instrumentale (elle aussi) de ce qu’il en est de la phonation humaine. Ce n’est pas que, d’un coté (voix) on aurait du souffle, de l’intériorité, et de l’autre (piano) une mécanique, certes bien tempérée. Par exemple, l’ivoire ; Si, l’ivoire ! Est-ce qu’il ne faut pas le mettre des deux cotés ? Cet ivoire sur lequel on appuie, avec les doigts (et coté piano) mais contre lequel aussi (et coté dents) vient buter une langue. Ainsi, attrapez au vol, dans la vidéo, ces moments magiques où cette langue vient buter sur la barrière dentaire ; ces sons que la phonétique nomme des « labio-dentaux ». Vous savez, quand, pour un « t » et un « d », la pointe de la langue vient à toucher les dents : « ting » ; « ding » … Attrapez les au vol !

 

Si bien que les choses se compliquent parce qu’il s’avère qu’il y a autant de mécanique coté voix qu’il n’y a d’âme, coté piano. Et la « mécanique », n’est-ce pas, on ne la voit jamais si bien que quand elle s’emballe ! Ces dents-claviers, mais regardez les donc sur la fin de la pièce!  Quand les voix n’en viennent plus qu’à cracher des rafales, au point que, au comble de la dispute, le sens est alors ce que l’on se surprend à en couper, abasourdis de notes désormais libres, rendues à leurs flux. Oui, dans la vie, la vraie, il arrive souvent que nos tympans en viennent ainsi à crever le mur du sens … Une autre forme, donc, mais ici extrême, de résorption du langage en pure musicalité ; un des motifs majeurs, on l’a dit, des travaux de MTS, mais, cette fois ci non du coté d’une nostalgie de petit d’homme, mais de celui d’une sauvegarde, et quand les temps sont durs … et que l’orage gronde … De disputes extrêmes ne dit-on pas souvent que l’on en sort … sonné ?

Retenons ici, et avant de passer à la dernière pièce, que l’entrelacs visuel sonore, se noue ici à l’acmé de poussées de vie … Que ces lignes sonores aussi bien que visuelles, qu’elles codent ou non du sens, suivent la vie au plus près de ses flux et reflux : des fluctuations de ses débits !

Samuel Bordreuil

 

 


 

[7] De récents travaux en sciences du développement, montrent par exemple l’importance des berceuses dans l’apprentissage par les nourrissons de la segmentation linguistique.

[8] Tim Ingold, Lines,       voir notamment le chapitre 1

[9] Et renvoie cette dernière à la charge de la notation d’images (oui d’images !) mentales – les fameux « signifiés » de la linguistique saussurienne.

[10] D’où, sans doute, cet effet d’insolite des versions doublées : ces expressions que l’on y reçoit dont on sent bien qu’elles ne viennent pas de notre « humus linguistique ».

 

 

From the text:

Drawn Together: Katie Holten and Mariateresa Sartori

Kathy Battista, writer, curator, Director of Contemporary Art at Sotheby’s Institute of Art, New York

 

(…..) Sartori uses a different, but related means of mapping human interaction in a work that was originally projected on the large windows of the Greenhouse of the Venice Biennale Giardini in 2011, visible to all passersby. In her video Etude Op. 25 No. 10 in B Minor Homage to Chopin the partially obscured faces of a man and a woman are seen diametrically opposed in the frame. Their lips seem to mouth the notes to the dramatic notes on the piano. In one shot the male protagonist is positioned on the right side of the shot mouthing the forceful phrases while

the woman is on the left and corresponds to the more gentle, softer phrases of the music. This male aggressive/female passive scenario swaps after four minutes, with the female becoming the more forceful opponent in this abstract tête-à-tête. What looks like a dialogue then resembles escalation into an argument and back again. Sartori worked with the performers, who each used one sentence that is said repeatedly to appear as if mouthing the notes of the piece. The artist will never divulge what the sentence was; indeed, it is not important. What is paramount is how the piece speaks to the abstraction of language and the human interplay of communication. The figure on the right corresponds to the dominant side of the argument; when the woman takes that place the high notes seem to bang out on

the piano like bullets from a weapon. This is less about a gender struggle and more about the basic human struggle to communicate, negotiate and maintain harmony. In this video, as in The Drawers, small actions—here located only in the protagonists’ mouths—signify huge psychological leaps. Sartori is drawing with her performers, albeit creating invisible and ever shifting lines.

 

 

 

 

 recensione di Eleonora Minna su Exibart

 
Fino al 30.XI.2013
Mariateresa Sartori
You are the music while the music lasts, Galleria Michela Rizzo, Venezia
 
Osservare lo sguardo e ragionare sul suono. A Venezia una mostra in cui video, disegni ed installazioni si alternano ritmicamente nello spazio, ricomponendo la ricerca recente dell’artista
 
 

pubblicato sabato 16 novembre 2013

Ogni volta che si parla di decostruzione di un linguaggio si finisce per chiamare in causa la semiotica e l’esattezza di ogni sistema modernamente inteso. Mariateresa Sartori (Venezia, 1961), sa che l’analisi di ogni segno rischia di cadere nel vuoto della forma, ma si ferma quell’attimo prima, tale da non farle perdere una sana freschezza.
 
Mariateresa Sartori, You are the music while the music lasts.
Sana freschezza che si ritrova, ad esempio, nelle riflessioni sul linguaggio musicale degli ultimi anni presentate alla Galleria Michela Rizzo.
Ogni parlante ha una propria musicalità, un timbro sonoro; ne Il concerto del mondo diversi strumenti musicali mimano toni e ritmi delle conversazioni di undici coppie, legandoli in un contrappunto musicale che ha la sua ragion d’essere e che segue regole parallele, eppur diverse, da quelle del linguaggio vocale. Al visitatore sono date due possibilità: può muoversi nella decodificazione dei parlanti, cercare di immaginarne contesto e toni, oppure seguire il concerto come semplice poesia, pura forma musicale sdoganata da quei contenuti che in ogni caso rappresentano il pretesto dell’opera. Un approfondimento in questa direzione avviene in Studio n.10 in Si minore op.25. Omaggio a Chopin, dove una coppia “parla” le note musicali, al punto che non interessa più togliere il coperchio sonoro per decifrare il linguaggio, è tutto già lì.
Lo sguardo dei disegnatori, un video e un progetto grafico, non è solo una riflessione sulla didattica: nel primo, a grandezza naturale, un gruppo di allievi è colto al lavoro. Il punto di vista è molto ribassato tale che l’oggetto del disegno resta sconosciuto e l’osservatore può vivere l’esperienza di immedesimarsi nell’oggetto veduto. Entra qui in ballo quella distinzione tra vedere ed esser visti di Merleau Ponty che Raffaele Gavarro chiama in causa nel suo testo. Ora il centro dello sguardo è diventato lo sguardo stesso: Mariateresa Sartori prende quello sguardo e lo trasforma in un motivo, dandogli un nome. Come? Ricalcandone su un monitor un minuto e 15 secondi di sguardo dei disegnatori: la concentrazione diventa movimento e la linea segno perché apre a diversi spunti come il grado di attenzione, il pensiero creativo, il movimento congiunto dello sguardo e del cervello. Ma ogni segno così ottenuto ha un suo nome e cognome, oltre la semiotica.
 
Eleonora Minna
mostra visitata il 20 ottobre 2013

 

 

 

Studio N.10 op.25. Omaggio a Chopin 2021.2022-06-07T09:35:44+00:00

Il Suono di Dante

Dittico sonoro, 2021

a cura di Chiara Bertola                                                                                                                              

idea e progetto Mariateresa Sartori,

regia Mariateresa Sartori

aiuto regia Armand Deladoey

composizione musicale Queste parole di colore oscuro di Paolo Marzocchi

Il terzo canto dell’Inferno di Dante Alighieri è al centro di un’operazione sperimentale. Per porre l’accento sulla musicalità intrinseca della Divina Commedia i versi danteschi vengono privati del significato  mentre sintassi, metrica e rima restano inalterate. Il risultato è qualcosa di assolutamente incomprensibile ma assurdamente familiare. Gli attori recitano il canto come  avesse il significato originario, invitando ad abbandonarsi a un ascolto puramente ritmico-melodico del canto. Alla lettura attoriale segue il brano ‘Queste parole di colore oscuro’ di Paolo Marzocchi che, sulla base della prosodia del canto rielaborato, traduce in termini prettamente musicali il testo dantesco. L’opera è stata presentata a Berlino, Venezia e Mosca. Gli attori sono stati sempre gli stessi, mentre i musicisti e i direttori sono cambiati a seconda del luogo.

 

 gli attori, da sinistra: Savino Liuzzi, Gustavo Frigerio, Elettra de Salvo, Pase Platform, Venezia, 2021

LINK AL VIDEO: Il suono di Dante, lettura degli attori del testo trasformato

 

 

link al video  Backstage de Il suono di Dante

                                                                                      

                                                                                                                                      Paolo Marzocchi

LINK ALLA COMPOSIZIONE: Queste parole di colore oscuro 

 

da sinistra: Elettra de Salvo, Gustavo Frigerio, Armand Deladoey, Savino Liuzzi

 

 

BERLINO, CORTE DELL’AMBASCIATA D’ITALIA, Istituto italiano di Cultura di Berlino,  25 agosto, 2021, foto di Dario Jacopo Laganà 

 

Musicisti: Ruth Velten (Sassofono), Zoé Cartier (Violoncello), Sabrina Ma (percussioni), direttore: Arno Waschk

 

                         

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VENEZIA, FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA, 28 settembre 2021, fotografie Katarina Rothfijel  

 gli attori Elettra de Salvo, Gustavo Frigerio, Savino Liuzzi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Musicisti: Paolo Bertoldo (percussioni), Massimiliano Donninelli (sassofono), Carlo Teodoro (violoncello), Direttore: Fabio Sperandio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

     

 

 

 

 

 

MOSCA, ELECTRO STANISLAWSKIJ THEATRE, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Mosca, 23, 24 ottobre 2021,

fotografie di Maria Emilianova 

 

 

 

 

 

 

Musicisti: Arkadij Pikunov, sassofono, Aleksandra Kobrina, violoncello, Andrej Nikitin e Matrëna Sokolova, percussioni,

Direttore d’orchestra: Mary Čeminava

Direttore artistico dell’ensemble:  Vladimir Tarnopol’ski

.              

 

                   

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Venezia, 2021

 

 

Il Suono di Dante2022-02-28T10:13:01+00:00

Il declino dell’Italia

 

cantante Andrea Gavagnin

3’12”

2016

 

 

 

lista di parole italiane cadute in disuso, al punto da risultare incomprensibili, cantate sull’aria del Lacrimosa del Requiem di Verdi.

 

Il declino dell’Italia2020-08-26T15:03:53+00:00