Il principio idraulico o di costanza

6‘50“ ,colors,  sound,  2003

 

 

Il principio idraulico  si riferisce in psicanalisi  alla teoria della libido, per la quale Freud  fa uso di una terminologia vistosamente legata ai liquidi: si parla di deflusso, scarica, serbatoio, canalizzazione ecc. Mentre la voce narrante  racconta in tono didattico ciò che accade a livello psichico, le immagini scorrono su esperimenti scientifici relativi ai liquidi ripresi in laboratori di fisica e di chimica

Il principio idraulico  si riferisce in psicanalisi  alla teoria della libido, per la quale Freud  fa uso di una terminologia vistosamente legata ai liquidi: si parla di deflusso, scarica, serbatoio, canalizzazione ecc. Mentre la voce narrante  racconta in tono didattico ciò che accade a livello psichico, le immagini scorrono su esperimenti scientifici relativi ai liquidi ripresi in laboratori di fisica e di chimica. Grafici  schematici, immagini di provette, pistoni ad acqua, bilance,  vasi comunicanti vanno ad illustrare paradossalmente ciò che accade nell‘apparato psichico, per sua natura irrapresentabile. Ciò che mi interessa è l‘inclinazione umana a comprendere i fenomeni, anche i più complessi, tramite la rappresentazione schematica, attraverso una generalizzazione che porti alla individuazione di principi organizzatori. Questa inclinazione  ci caratterizza e ci fonda in quanto esseri umani : è il modo del pensiero.

In qualsiasi campo dello scibile il modo di procedere sarà necessariamente lo stesso: rintracciare costanti in un mondo (grazie al cielo) per molti versi prevedibile.. La comprensione della realtà passa attraverso la rappresentazione, di cui lo schema, nel senso della rappresentazione grafica, è l‘essenza. Cito Oliver Sacks, che da bambino resta folgorato dalla tabella di Mendeleev: „La tavola periodica era incredibilmente bella, la cosa più bella che io avessi mai visto. Non potrei mai analizzare adeguatamente che cosa intendessi, qui, per bellezza: semplicità? coerenza? ritmo? inevitabilità?“.

Testo di Margherita Gigliotti sul Principio idraulico o di costanza

 

Il finale, nel video di Mariateresa Sartori Il principio idraulico o di costanza, è liberatorio. Tutti i finali in un certo senso lo sono. Anche quelli più scioccanti o spiazzanti, o soltanto frettolosi, sommari, mettono la parola fine a un dilemma. Alla complessità del reale o meglio a quanto se ne ha da dire.

La parola fine in Sartori è una parola miracolosamente aperta, dopo tutto quello che è stato detto, sperimentato e assemblato nel video fino a un attimo prima, talmente aperta da presentarsi come eterno ritorno, estatico e pur tuttavia misurato inno all’umano ragionare e alla sua capacità di resistere ai suoi stessi limiti. Una voce femminile, un canto lirico-ornamentale di origine antica, si eleva al di sopra delle parole, si incanta e ci incanta interrompendosi e ripetendosi fino a trasformarsi in universale meditazione, in liturgia della non-rassegnazione. Come un planctus consolatorio, raccoglie e orienta ciò che contemporaneamente vediamo sullo schermo e che a sua volta è un quadro orientato: l’interpretazione grafica, a tratti animata, di modelli esplicativi scientifici, reperti di opere di consultazione informatizzata.

Sinesteticamente sentiamo, così, oltre che vederlo, il palpitare di cellule che al microscopio rivelano la loro segreta attività, la fremente attesa tra un venirsi incontro e un riallontanarsi; l’innalzarsi infaticabile di curve di livello, stilizzati Mose dell’anima insistentemente eppure rispettosamente sostenuti da frecce, indicatori, segni chiarificatori. Tutti insieme a ribadire che l’umano sapere, che di quell’attesa e di quella fatica si fa carico, non può fare a meno di progredire nonostantel’imperfezione dei suoi stessi strumenti: segni, concetti o modelli che siano.

Qual è l’argomento di questa antropologia artistica? Ce lo dice la prima parte del video, quella in cui le parole hanno il loro peso. Il peso specifico della teoria psicoanalitica freudiana, secondo la quale le leggi che governano le pulsioni sarebbero da intendersi, con esplicito riferimento al modello della fisica idraulica, in termini di meccanica e di economia; ovvero di mantenimento e compensazione, di “costanza” appunto, delle energie psichiche investite.

Mentre sentiamo parole lette con voce pacata che descrivono leggi, astrazioni, tentativi di avvicinamento alla realtà (una realtà interiore, ma non per questo meno degna di precisione), assistiamo ad altrettanto pacate azioni compiute da affidabili mani su alambicchi e campane di vetro, in travasi ed esperimenti di un  laboratorio di fisica in cui si respira aria d’altri tempi, intorno al tema dell’idraulica. Altrettanto tranquillamente si propagano e poi scompaiono davanti ai nostri occhi onde ad anello e riverberi cromatici ottenuti in pochi sperimentali centimetri d’acqua, o si incagliano barchette, o si prosciugano, con la levità di una vecchia pellicola, territori circoscritti in satellitari mappe geografiche. Tutto, anche i particolari dei grafici e le sequenze di cellule in fermento che riappariranno nella parte finale del video, è cadenzato secondo il dettato dei principi esposti, con imperturbabile calma.

Ciò che non dà requie, invece, è la nostra mente, senza concessioni spinta dall’artista a cercare di volta in volta – con una ciclicità che prefigura quella del finale – il nesso fra quanto si sente e quanto si vede, fra la teoria e la dimostrazione pratica, fra le parole e una loro esemplificativa messa in scena davanti a un obiettivo-osservatorio. Sartori sa della varietà infinita di associazioni possibili e sa anche del lavorìo della mente che non può fare a meno di interrogarsi sul perché di tali associazioni, fra concetti e oggetti, fra l’universale e l’individuale; e che non può rinunciare a cercare, senza sosta, la spiegazione di ciò che è già di per sé spiegazione, in uno specchio infinito di rifrazioni che corrisponde allo scavo della conoscenza.

E’ da questo scavo che con indulgenza ci libera, come in una pausa di riflessione, fra la prima parte e il finale del video, un arcano traghettatore di sentimenti, di energie segrete e di speranza, nonostante l’ignoto che resta da attraversare. Nelle immagini sfuocate in bianco e nero intuiamo, in uno scorcio verosimilmente lagunare su un angolo di città allagato, la sagoma di un bambino colto nell’atto di guadare l’acqua protetto da stivali e incerata. Dimentico di sé stesso, come di chi sia preso dal gioco, non teme la realtà che lo circonda e anzi, nell’acqua alta dell’interiorità verso la quale lo zoom dell’artista ci richiama, assume altre sembianze: di piccolo uomo di mare, distolto dal suo lavoro e dalla vera, terribile forza degli elementi o, anche, di piccolo sfollato alle prese con il passatempo che un cataclisma gli ha riservato.

A questa figura bifronte, ermetica, di innocenza e di sofferenza insieme, Sartori affida il compito di guidarci verso una pacificazione interiore: dove le tumultuose acque delle passioni e quelle altrettanto movimentate della scienza, nel ritmo vibrante di forme e di suoni, si placano.

 Margherita Gigliotti

How to Picture Living Systems, KLI, An Institute for Advanced Study of Natural Complex Systems, Klosterneuburg, Austria, curator Petra Maitz
Il principio idraulico o di costanza2020-07-28T17:47:15+00:00

Il concerto del mondo

7’ , b/n,  sonoro,  musica di Stefano Codin,  2008

 

Il concerto del mondo è il concerto delle lingue del mondo, la cui intrinseca  musicalità viene  sottolineata dalla traduzione in note dell’andamento della conversazione spontanea tra persone di diversa nazionalità. A seconda della lingua parlata,  del timbro della voce, e del tipo di conversazione è stato scelto uno strumento musicale diverso.

Su Radio Rai Tre per Stanze d’artista a cura di Guido Barbieri 30 minuti sui lavori sonori di Mariateresa Sartori, 17 agosto 2017

      1. RADIO RAI TRE Sartori 3

 

 

Il concerto del mondo2020-08-26T11:52:45+00:00

La misura dello spazio

6’ 50’’  b/n sonoro 2006-2007

Considerando uno spazio dato, osservare come viene creato e determinato nelle sue possibili e infinite configurazioni dalla presenza dell’uomo, dai suoi movimenti, dalle sue traiettorie, dal suo stare fermo, dalla sua lentezza o velocità. Considerare lo spazio vuoto, dunque, come un campo di forze gravitazionali, i cui bordi delineano di volta in volta nuove figure. Lo spazio come un vuoto carico, saturo di forze di  attrazione e di repulsione, generate dalla presenza dell’uomo, analizzato quasi come figura geometrica piana in perenne revisione dei propri lati e perimetri e nella continua ridefinizione  di  linee interne  create dalle forze in gioco.

 

 

 

La misura dello spazio2020-07-28T17:21:18+00:00

Senza eccezioni

 3’ 30“ , colori, sonoro, 2003

La comprensione della realtà passa attraverso schematismi e generalizzazioni, tratto peculiare della mente umana sempre affamata di principi ordinatori e organizzatori. Le immagini restano ancorate alla loro funzione di rappresentazione di leggi e costanti, seppur in modo non direttamente deducibile.

 

 

 

Senza eccezioni2020-07-28T17:17:47+00:00

Le ragioni della scienza

9’ 50” ,  b/n,  sonoro, 2001

Tecnicamente consiste nel montaggio di immagini tratte da documentari di archivio o da vecchi film sincronizzati con una voce tratta da una trasmissione radiofonica (Alle 8 della sera, Radio RAI 2, inverno 2001) che parla a braccio di fatti della scienza, in particolare di aspetti della fisica, in termini divulgativi. Vi è una connessione tra ciò che la voce narrante va inesorabilmente spiegando in campo scientifico e le immagini.

Tecnicamente consiste nel montaggio di immagini tratte da documentari di archivio o da vecchi film sincronizzati con una voce tratta da una trasmissione radiofonica (Alle 8 della sera, Radio RAI 2, inverno 2001) che parla a braccio di fatti della scienza, in particolare di aspetti della fisica, in termini divulgativi. Vi è una connessione tra ciò che la voce narrante va inesorabilmente spiegando in campo scientifico e le immagini.

Ciò che mi interessa maggiormente è il filo di connessione tra caso specifico e teoria generale, tra soggettivo e oggettivo, tra unicità degli eventi da un lato e teoria generale dall’altra. Nel video vi è sempre uno scarto tra accadimento singolo soggettivamente vissuto e teoria generale, a cui comunque si tiene pervicacemente aggrappata la voce narrante.

Mi interessa l’incessante – indispensabile quanto sotterraneo – lavorìo mentale che ci porta quotidianamente alla ricerca di generalizzazioni e principi ordinatori .

 

Quali le ragioni della scienza?

Chiara Bertola

La meteorologia è una scienza che appassiona Mariateresa Sartori. Ogni mattina batte il vetro del barometro appeso in cucina per informarsi sulle variazioni del tempo, (“Mi piace perché non dipende da me”) nel tentativo di tenere il caos meteorologi­co in qualche modo sotto controllo e incasellato dentro parametri definiti. Si tratta di inserire l’ina­spettato dentro dei confini segnati, sentire che se qualcosa può variare è comunque sempre all’inter­no di un ordine. L’utilizzo costante della scienza meteorologica nella sua vita quotidiana cela una delle chiavi d’accesso al suo ultimo video.

Il bisogno di controllare il barometro del tempo cor­risponde alla necessità di ordinare i grandi eventi, di categorizzare i comportamenti che sovrastano e scandiscono la vita dell uomo, temi che ritroviamo portanti nei suoi ultimi lavori. Addirittura nel recen­tissimo video le parole della Scienza si sono unite, sovrapposte e confuse, con le immagini della Storia dell’uomo, nel tentativo di disegnare una griglia entro cui inscrivere la discontinuità della vita.

Le ragioni della scienza” consiste tecnicamente nel montaggio d’immagini tratte da documentari, fil­mati d’epoca tra le due guerre agli anni ’60 e vec­chi film, sincronizzate con la voce di una trasmis­sione radiofonica che racconta di fatti della Scienza, in particolare di alcuni aspetti della Fisica, in termini divulgativi. Lo scorrere delle immagini, associato alla voce, dà vita in alcuni punti a connessioni contrastanti, a volte a sovrapposizioni, in altre invece a corrispon­denze esatte. Il video è poi suddiviso in sorte di capitoli o argomentazioni: “L’evoluzione della specie”, “Il principio di causa – effetto”, “Il principio di conservazione della massa”, “La percezione”, creando anche qui un leggero livello di spaesa- mento tra i soggetti, tra la vita dell’uomo e quella degli atomi, tra la teoria determinista e la magica possibilità di predire il futuro.

Già nel video precedente “Die Entscheidungs- moeglichkeiten o Le decisioni in camera” vi era espresso l’interesse per una categorizzazione dei comportamenti umani all’interno delle mura dome­stiche, intravedendo in questo modo la possibilità di un disegno entro cui ordinare le dinamiche istin­tive dell’uomo.

“Sono attratta da ogni forma di generalizzazione e catalogazione e considero con stupore la connessione a volte pacifica a volte parecchio contrastata tra caso specifico e categoria generale”. Quest’ultimo video tratta appunto di questo, del filo tra soggettivo ed oggettivo, tra unicità degli eventi da un lato e teoria generale dall’altra, ma è chiaro, come in ogni lavoro che s’intenda tale, che le ragio­ni iniziali si ampliano e si contraddicono aprendo altre vie, e le Ipotesi si perdono lasciando venir fuori nuove indicazioni.

Le parole che ascoltiamo mentre scorrono le immagini del video, sono le parole rassicuranti della Scienza, quelle riferite a teorie che partono sempre da qualcosa di cui si può essere certi, e basate principalmente sul presupposto metafisico che il mondo è conoscibile. Ma questo, com’è noto, vale molto meno nel mondo della vita reale dove spesso sono gli eventi soggettivi a spostare e a mutare gli eventi oggettivi e previsti. Dunque, al primo percorso scientifico: distaccato, distante, impersonale e oggettivo, viene affiancato quello dell’arte attraverso le Immagini in bianco e nero dei documentari e del film d’epoca, immagini allusive e frammentarie di eventi della civiltà e della storia dell’uomo, nascita, morte, vita e guerre.

E’ inevitabile non vedere In questa linea il percorso della soggettività, delle emozioni, della creatività e dell’incontrollabile. In ogni epoca arte e scienza si configurano come approcci allo stesso problema, nella determinazione del mondo e del reale, trasci­nando con sé le stesse Inquietudini, le stesse esi­genze, la stessa rottura di valori preesistenti, resti­tuendo ogni volta risposte diverse. Due percorsi e due linguaggi che anche nel video si affiancano e talvolta si sfiorano, incontrandosi nel gioco d’imma­gine che l’artista ha voluto creare attraverso il mon­taggio, ma che rimangono perlopiù separati rispon­dendo in modi diversi ad uguali domande.

Per esempio, mentre la voce fuori campo, rassicu­rante e fredda, parla della teoria del determinismo, sottolineando che “Ogni evento è l’effetto di una causa che lo precede nel tempo” e che chi “cono­sce gli eventi attuali conosce anche le cause degli eventi futuri”, lasciandoci per un momento pensare di avere le chiavi per prevedere il futuro, in questo punto l’Immagine del video si sofferma sullo sguardo intenso di un bambino che vorrebbe ma che sa di non sapere quale sarà II proprio futuro. Certamente in lui c’è già il ragazzo del futuro, ma senza il come, il dove e II quando. Allo stesso modo e con la stessa pietas nel confronti del mondo umano, l’artista fa coincidere il momento in cui la voce scientifica fuori campo recita, con tono sicuro, un’altra certezza: “L’unica cosa di cui possiamo essere certi è ia percezione …noi possiamo esse­re certi di ciò che vediamo più che del comporta­mento delia luce o dell’oggetto osservato…” men­tre nel video scorrono immagini tragiche di morti in guerra e quella, in particolare, di una donna che ricompone le mani di un cadavere, di un uomo. Di che cosa siamo certi di aver visto in quel momen­to? Un cadavere o la morte di un proprio caro? In quel momento mentre scorrono quelle Immagini e la voce trasmette quella sentenza viene In mente soltanto che è difficile ‘vedere’ la morte e averne coscienza quando la s’incontra e che le regole della percezione non ci sono di aiuto.

Non si tratta di spiegare le ragioni della scienza con immagini antropologiche o viceversa i comportamenti umani secondo ragioni scientifiche.

Nel video si afferma piuttosto il pensiero di una tra­gica necessità: darsi dei punti di riferimento, mette­re dei confini, ordinare il caos, tentare di incasella­re l’inaspettato, con il risultato che tutto questo non è possibile farlo. L’artista vorrebbe scegliere la via dell’esattezza, della precisione, della finitezza e del rigore ma queste rimangono solo delle proprietà che servono a scongiurare il significato del proprio contrario: la paura del disordine, il pericolo dell’e­quivoco e l’angoscia dell’infinito. La voce nel video che elenca le teorie elementari della scienza, è un tentativo di catturare la verità nella sequenza degli eventi delle immagini che sconvolgono e scandi­scono la vita dell’uomo.

L’obiettivo di Mariateresa Sartori – negli ultimi lavo­ri – è quello di cercare di ricondurre i casi specifici, soggettivi, ad una generalizzazione che li possa comprendere; vedere se attraverso il linguaggio è possibile creare un ordine, incasellare i fatti della realtà, darsi la possibilità di fare un po’ d’ordine nel caos dell’esistenza. Ordine che ogni volta non si riesce a comporre né a vedere. Anche allontanan­dosi il più possibile utilizzando immagini storiche, di repertorio, che arrivano dal passato, che fanno già parte di un qualcosa di sedimentato nella nostra storia; neanche in questo modo è più facile ricon­durre gli eventi alle rassicuranti regole delle teorie della Scienza elementare. Inevitabilmente, sembra indicarci Sartori, bisogna allora accogliere l’ina­spettato, lo spaesamento quotidiano nella vita, come elementi vitali, arrendersi o fare i conti con la sfuggente natura della realtà.

Vengono in mente le ineffabili gioie dell’enumera­zione cercate da George Perec nell’esaurimento dei luoghi e delle cose, quando, per riconfermare la propria esistenza, registrava ogni volta nella memoria e poi nel racconto l’esperienza dell’ogget­to. Analogamente Sartori ha bisogno di generalizzare le variazioni del comportamento umano, per cercare i limiti della propria esistenza. Se dell’esperire non abbiamo la prova, allora emerge il fan­tasma dell’annullamento e della perdita di controllo da parte dell’Io. L’unica soluzione possibile è quel­la di procedere a una catalogazione del pensiero e dei gesti, della memoria, del tempo e dello spazio, altrimenti inesperibili. Quasi la logica di un bambi­no e la sua esigenza primaria di creare degli ordini dentro i quali disegnare il mondo per abitare fuori dalla paura.

Venezia, Luglio 2002

Esercizio per la mente

Alessandra Melandri

Nella moltitudine di video che domina la produzio­ne artistica di oggi “Le ragioni della scienza” di Mariateresa Sartori emerge per il forte carattere perturbante e per le emozioni che suscita nello spettatore. Non per la novità delle Immagini, gli effetti speciali o l’utilizzo di tecnologie avanzate, ma in senso strettamente freudiano, perturbante in quanto ci mostra e ci parla di cose ben note.

Le teorie scientifiche raccontate nel video dalla voce narrante sono infatti quelle che, seppur in maniera superficiale, comunemente si conoscono, ma che ognuno di noi spesso lascia in un angolo della propria memoria. Ugualmente molte delle immagini di repertorio che scorrono sullo schermo si riferiscono ad eventi storici o a momenti della vita deH’uomo che avvertiamo come noti.

La struttura del video è quella austera del vecchio documentario televisivo: un rigoroso bianco e nero, la voce dal timbro fermo e autorevole di uno scien­ziato – e non di un doppiatore – un sottofondo sono­ro piacevole, ma severo e quasi ipnotico. Titoli ele­mentari e circostanziati, da manuale scientifico.

Nulla lascia presagire che nel giro di pochi istanti saremo completamente rapiti dalle emozioni, da un rapido alternarsi di gioia e commozione suscitato dal mirabile e poetico accostamento di parole e Immagini derivanti da contesti completamente diversi.

Per un attimo ci lascia credere, Mariateresa Sartori, di poter assistere con leggerezza ad una sequenza di immagini frivole, o comunque rassicu­ranti, quali le geometrie di un caleidoscopio, l’elegante roteare di ballerini in splendide sale da ballo, il commovente agitarsi di una moltitudine di neona­ti, o l’intenso bacio scambiato da una coppia di sposi. Ma l’illusione è interrotta dal veloce insinuar­si nella nostra mente del sospetto che possa esi­stere una relazione fra le immagini che vediamo e il significato delle parole che udiamo.

I soggetti delle Immagini presto variano. Ora sono soldati minacciati che si arrendono agli avversari con le mani alzate, ratti che sbucano dai tombini, donne con figli In braccio che lasciano i rifugi dopo un bombardamento a suggerirci una coincidenza fra la descrizione di una teoria scientifica e la real­tà della vita umana: “E dunque nei casi in cui tutto è avvenuto incidentalmente, ma come se fosse accaduto per un fine”, afferma inesorabile la voce narrante, “quegli esseri si sono salvati perché costi­tuiti accidentalmente in modo opportuno, quelli invece per i quali ciò non è avvenuto si sono estinti, e continuano ad estinguersi”.

Alla fine del primo episodio del video, intitolato “L’evoluzione della specie” capiamo con certezza a quale intelligente e sottile esercizio mentale Mariateresa Sartori ci sottopone; accettiamo la sfida e intensifichiamo il livello di attenzione.

Non è necessario comprendere appieno la descri­zione delle teorie scientifiche che con imperturba­bile calma continuano ad essere descritte nei tre episodi successivi: “Il principio di causa – effetto”, “Il principio di conservazione della massa , “La percezione”. Parole e immagini si fondono nella nostra immaginazione e danno vita a nuove visioni, mentre siamo completamente catturati dal- l’alternarsi degli stati d’animo che ne consegue, li piacere sta proprio nell’esercizio mentale, nella felicità dell’intuizione che il lavoro dell’artista ci regala. Riguardando di nuovo il video l’esercizio non perde di efficacia e le scoperte si moltiplicano e rinnovano.

L’esperimento che Mariateresa Sartori ha tentato nel laboratorio della creatività artistica è riuscito perfettamente.

Ed è alla voce lieta di due bambini che l’artista affi­da il compito di suggerirci come proseguire nella nostra riflessione sulla vita.

 

Milano, Luglio 2002

 

How to Picture Living Systems, KLI,  An Institute for  Advanced Study of Natural Complex Systems, Klosterneuburg, Austria,  curator  Petra Maitz

 

Le ragioni della scienza2020-07-28T18:02:10+00:00

Die Entscheidungs möglichkeiten o Le decisioni in camera

6’30’’ b/n sonoro Graz – Venezia 2000

Ciò che m’interessa è l’inclinazione umana a ricondurre le esperienze soggettivamente vissute in griglie più oggettive e in principi più generali, nella continua tensione tra soggettivo e oggettivo.

Günther Holler-Schuster

Laura Graziano

Relazione del censore

Samuel Bordreuil

 

 

La precisione sfuocata. Die Entscheidungsmöglichkeiten o Le decisioni in camera

di Günther Holler-Schuster, curatore, Neue Galerie Graz

 Nonostante l’inesperienza e la scarsa conoscenza dei dettagli lo sguardo del bambino sulle cose della vita è preciso. Un’automobile è ad esempio un oggetto che si muove più o meno velocemente grazie ad un motore.

Un oggetto qualsiasi se fatto muovere nel modo giusto, eventualmente accompagnato dai tipici rumori come ad esempio brum brum, può nelle mani di un bambino, diventare improvvisamente un’auto. Lo spunto può essere dato dalla forma allungata di un salame o da quella di una scatola di sigarette abbandonata sul tavolo (così come il bambino le vede in televisione) ed ecco che un’auto da corsa sfreccia sulla tavola apparecchiata. Chiaramente non ci è dato sapere di che auto si tratta (marca, tipo di motore, carrozzeria, anno di costru­zione ecc.) ma ne cogliamo la struttura di base, l’essenziale.

Il procedimento metaforico-trasformativo è parte di un comportamento specifico dei processi creativi dell’artista. Per reazione, per omissione degli elementi superflui, lo sguardo si rivolge all’essenziale. In primo luogo si fonda la struttura di base – solo successivamente si dà la possibilità di analizzare e definire i dettagli. Nel tentativo di definire un aspetto generale dell’esperienza umana paragonabile al processo creativo dell’artista Sigmund Freud giunge all’analisi del gioco infantile: “Il bambino che gioca si comporta come il poeta, in quanto crea un proprio mondo, o meglio, sistema le cose del suo mondo in un nuovo ordine secondo il suo piacere”1. E’ importante tuttavia sottolineare che questo “nuovo ordine” non è un mondo contrapposto privo di sostanza. Secondo Freud il gioco del bimbo è funzionale alla crescita e in questo senso grazie al gioco il bambino copia i modelli comportamentali dell’adulto. Ma visto che la rete dei particolari non gli è accessibile, il bimbo si rivolge all’essenziale. E la rappresentazione nel gioco non può dirsi sbagliata. Non si intende qui enfatizzare l’aspetto geniale della struttura psichica del bambino, si tratta invece di una potenzialità insita nell’uomo sin dalla prima infanzia, che si modifica sì a seconda dello sviluppo intellettuale di ogni singolo individuo, ma che strutturalmente resta immutabile.

A ciò sembra far riferimento Mariateresa Sartori nel video Die Entscheidungs-mòglichkeiten o le decisioni in camera. Con il pongo, un materiale con cui giocano i bambini, l’artista modella figurine umane che si muovono e vengono filmate nei modi classici dei film di animazione. Recentemente è uscito nei cinema il film di animazione Chicken Run dei britannici Aardman-Studios, i quali già negli anni settanta avevano iniziato a sfruttare le possibilità insite in questo duttile materiale. Non si tratta di un semplice scorrazzare di polli umanizzati. Giocato come film d’azione sviluppa la storia di una rivoluzione sociale in formato cartone animato.

E qui torniamo al tema iniziale. Le indefinite figure monocrome di Mariateresa Sartori compiono semplici atti in uno spazio scenografico. Appaiono in scena, si avvicinano alle sedie, si siedono, se ne vanno.

Alcuni sottotitoli ( “avvicinarsi”, “restare”, “allontanarsi”, ecc. ) ne definiscono gli atti in modo vago. Essi rappresentano le possibilità più elementari che un essere vivente ( l’uomo come l’animale ) ha a disposizione in una certa situazione, di fronte a un altro essere vivente o di fronte a un oggetto.

Ma la visione dello spettatore non si esaurisce nei modi oggettivizzanti che suggeriscono le didascalie. Grazie all’archivio personale d’immagini che ognuno di noi ha a disposizione prende forma lo svolgimento narrativo. E’ l’universo d’immagini da cui attingiamo (dai media, dai film ecc.) che mette a fuoco i dettagli rendendoli leggibili.

Pericolo, tensione, tristezza possono venire egualmente colti e percepiti così come lo può essere una scena d’amore oppure l’attesa di una telefonata che non arriva. Chicken Run potrebbe essere una possibile conseguenza.

Anche nei quadri di Mariateresa Sartori (foto coperte da uno strato di resina) l’indeterminato svolge una funzione essenziale. Parlando della sue opere Gerhard Richter non vi trova alcuna “indeterminatezza interiore”, bensì solo una indeterminatezza esteriore”. Ciò che intende è il suo rapporto con il reale. Quello che all’osservatore distratto sembrerà un quadro sfuocato, impreciso, è in realtà per il pittore l’espressione del suo rapporto con la realtà.

In questo senso dunque – e questo riguarda anche il video di Mariateresa Sartori – abbiamo a che fare con la manifestazione del rapporto dell’artista con la realtà. Lo spettatore allora percepisce le immagini con sensazioni sfuocate, come sfuocata è per l’artista ( per Richter come per la Sartori ) la realtà. Attraverso la sua arte Mariateresa Sartori sembra infatti comunicarci l’immagine del suo personale rapporto con la realtà.

Nei confronti della realtà non abbiamo certezze, ma solo la possibilità di decidere e di scegliere. I protagonisti del video (gli ometti in pongo) hanno questa possibilità. Ma non hanno la certezza di sapere in quale situazione si trovino.

Il loro rapporto con il reale è sfuocato, impreciso. Solo attingendo dal deposito personale di immagini lo spettatore può trovare una sua possibile definizione, ma non una definizione che valga per tutti.

Ciò che Mariateresa Sartori esprime, in particolare nel video, trova una corrispondenza in Wittgenstein quando dice: “Si può dire che il concetto di gioco sia un concetto dai contorni sfumati. Ma un concetto sfumato può dirsi un concetto?… Una fotografìa sfuocata è davvero l’immagine di una persona?”2

 

Venezia, inverno 2000

Cara Meri,

guardare i tuoi quadri mi emoziona, sempre. Dev’essere la sospensione del tempo, afferrare il presente e dircelo solo attraverso il passato. E un complicato lavoro sulle immagini che rimandano alla compresenza di stati temporali. Con questi ultimi lavori ho fatto fatica: la sensazione era di vedere qualcosa che mi portava rapidamente verso uno struggimento, forse prodotto dallo stato di inaccessibilità alla condizione di esistenza che ho visto nelle foto. Dare la caccia alle mie emozioni/sensazioni e costringerle a nominarsi forse mi spie­gherà qualcosa di quello che ho visto.

Solitamente è la nostra altezza il punto di osservazione da cui guardiamo ciò che ci accade intorno: cambieranno le scene, adatteremo lo sguardo, ma il punto dove il nostro sguardo ha origine rimarrà lo stesso, noto e univoco. Tu fai sparire questa prospettiva e la sostituisci con una visione dall’alto o meglio da più in alto e da lontano. L’immagine si trasforma, si allontana dall’esperienza abituale di realtà e la deformazione della prospettiva produce un folte ed enigmatico effetto straniante. La nuova posizione è rigorosa rispetto ai valori geometrici, si modifica solo il punto di osservazione. E’ la prospettiva che troviamo nei sogni, che se ne infi­schiano del punto di osservazione, la mente notturna attiva alterazioni prospettiche che nella realtà possiamo solo ricostruire con artifici.

In una raggelata riproduzione di stanze di appartamento, fai sparire quasi tutto l’arredo, e introduci delle sagome di gesso che stanno dentro le stanze svuotate: in questi interni bianchi e vuoti è stata cancellata ogni traccia di rappresentazione naturalistica e i soli oggetti che rimangono, isolati come terre emerse, sono il letto o il tavolo. In questi spazi di solitudine metafisica, le sagome sperimentano delle azioni quotidiane (avvici­narsi, allontanarsi, osservare, restare fermi…) e il valore di queste azioni si concentra nella tensione tra la pos­sibilità e l’impossibilità del movimento. Attraverso un processo di condensazione molto forte le immagini rac­contano della libertà/non libertà del decidere.

Tu presupponi un soggetto capace di pensarsi e di rappresentarsi e ne mostri l’immagine più astratta, dema­terializzandolo in forma di calchi. La sostituzione delle figure umane con cavie bianche toglie qualsiasi riferi­mento alla singolarità degli individui e ci trascina verso l’astrazione del discorso. E’ di una condizione genera­le che si parla, del grado di libertà che sperimentiamo nelle nostre decisioni: possiamo desiderare un cambia­mento e non riuscirci rimanendo immobili e invischiati nella ripetizione dello stesso movimento: il cambio di un gesto esige prima il cambio di un’immagine mentale. La differenza tra una posizione e l’altra apre una serie di variazioni nelle mosse successive e introduce il rischio, dal rischio ci si allontana con l’immobilità.

C’è una concettualizzazione estremamente nitida che usa la fenomenologia del quotidiano e con immagini totalmente impreviste evidenzia processi astratti. Lavorando tra astrazione e rappresentazione, ottieni in que­ste fotografie delle immagini inquietanti: le cavie stanno lì, nella solitudine e fatica, e mimano, sospendendoli nell’immaginazione, i nostri pensieri. La consapevolezza che le figure evocano non ce le avvicina, anzi ce le rende inaccessibili, come dire che la consapevolezza esige la distanza. Ciao

tua Laura (Graziano)

Perché si raccomanda di evitare la visione de “Die Entscheidungsmoeglichkeiten o le decisioni in camera”  

Relazione del censore 

 it 1 it e ted 2 copia

 

LE DECISIONI IN CAMERA. ESSAI CRITIQUE

di Samuel Bordreuil, sociologo, già direttore scientifico dell’IMéRA,  Institut d’études avancées d’Aix-Marseille

 

« Le decisioni in camera », si c’était un « vrai » film, combien contiendrait-il d’images ? Réponse : 6’32’’ = 392’’ x 24 (pour 24 images/seconde) = 9408 images. Et si c’était un tableau ? Une et une seule.

On estimera, à raison de 2 plans par seconde, (et pour se donner un ordre de grandeur) que la pièce de MTS contient, elle, environ : 392’’ x 2 = 784 saisies ou « prises »[1] … On la situera ainsi entre peinture et cinéma, entre, disons, le cubisme aussi bien que Francis Bacon, et les frères Lumière. Entre ces 1 et près de 10 000 images, on la  définirait plutôt comme une rhapsodie, c’est à dire comme la couture de quelques centaines d’images sources; sur le patchwork  desquelles vient adhérer le déroulé d’une bande son, elle même composée d’une ligne musicale pure et d’une demi douzaine de bruits typiques. Voilà tout, ou à peu près.

Est-ce que ce bagage expressif suffit pour recréer l’illusion de la vie ? Est-ce que les centaines de « plans par plans » qui saisissent les « sagome » s’oublient, se diluent, de se fondre dans le continu de vies représentées ? Nos rétines, nos tympans, se laissent-ils impressionner de la même manière qu’ils le seraient à suivre ce dont les sagome ne sont que les simulacres ? C’est sans doute ce genre d’effet – « effet de réel » – que visent les films dits d’animation. Ceux là qui nous permettent de suivre et de comprendre des actions en train de se dérouler et comme si elles se déroulaient réellement : d’entrer dans leur présent. En un sens, la pièce de MTS appartient bien à ce genre ; mais en un autre elle en diverge, accomplissant à la fois moins et plus … On la caractériserait plutôt comme un « film de réanimation » ; à la fois au sens où les scènes restituées s’y donnent plutôt comme des « animés » anciens, mais aussi au sens quasi médical du terme, où la réanimation, le « retour de la vie », est une opération qui n’est pas forcément couronnée de succès. Des bribes de coulées de vie, on en a bien dans la pièce, mais plutôt évoquées que représentées. En outre, l’animé jamais n’y efface la réalité de la réanimation  et puisqu’il se présente le plus souvent comme tel … comme un « réanimé ». Si bien qu’on y perd jamais le sens que ces coulées de vie sont elles mêmes prises par et dans une coulée plus ample et comme en recul.

Comme nommer cette coulée d’arrière plan ? Celle qui vient reprendre les vibrations de nos membranes rétiniennes et tympaniques, pour les déployer dans son ordre vibratile propre. Sur quelle membrane intérieure viennent donc se déposer les éclats sensoriels dont cette pièce est la rhapsodie? Quelles cordes sensibles intérieures viennent-ils toucher … et ranimer; et avec quels effets ?

Symétriquement (et coté création): de quelle coulée sous jacente ces éclats sensoriels, savamment composés par l’artiste, sont ils les « détachés », les émissaires, les ambassadeurs ? De quel pays nous viennent-ils et reviennent-ils donc ? Et qu’est-ce qui, dans l’offre de l’artiste, nous permet d’y accéder … et pour mieux la rejoindre, à cette sorte de « rendez vous » qu’elle nous propose ?

Le visuel, pour commencer : « mal vu, mal pris » ?[2]

De Bacon (et puisqu’on l’a mentionné), on retrouvera sans peine la trace, dans cet effacement des formes qui vient suggérer l’évasion d’un être qui, « frappé de mouvement », ou mu par des forces invisibles, en vient à manquer à sa place …

Entrant (et avec sa permission !) dans la « cuisine » de l’artiste, cet espace « retroscena » où elle concocte ses rudiments avant de nous les donner à percevoir, on y surprendrait quelques recettes à l’oeuvre (pour sacrifier au genre du « making of »). Par exemple que, d’un plan à l’autre, on passe souvent par chevauchement : le déplacé d’un corps, d’une « sagoma », coexistant pour un laps de temps (quoi, 1 ou 2 secondes ?) avec l’emplacement précédent … Si bien que, conservant la mémoire de l’antécédent, il en figure du coup le suivant comme une sorte d’émanation … Si ! « d’ectoplasme »! Ajoutez à cela des variations constantes dans l’intensité lumineuse, qui, à raison de leur instabilité,  viennent alors rappeler aux formes entr’aperçues leur identité de simples lueurs, ainsi arrachée sur le fond d’un retour à l’obscurité, jamais exclu … On dirait de ces homoncules qu’ils n’évacuent jamais complètement leur dimension de lucioles, à raison de ces battements de lumière … Mais pas au point que l’on prive ces lucioles d’un minimum de masse, de corps. On le voit bien : elles s’étirent et se ramassent, dans le chevauché des saisies ; sortes de « mille pattes » fluorescents qui, pour mieux avancer, se déplient avant de mieux se retrouver en se ramassant sur eux mêmes … S’agréger, puis se dilater, (au risque de la désagrégation) tel un peloton (« poltone ») de cyclistes qui se compacte ou se diffracte selon les sinuosités ou les aspérités d’un parcours : telle semble bien être la condition des « sagome » sartoriens …

Maintenant, que « la chose/lueur » bouge est une chose ; que le regard qui s’en saisisse ne cesse lui même de bouger en est une autre – ce qui nous permettra de passer dans l’ordre des références picturales de Bacon au cubisme … et à son programme limite de condenser dans une représentation et une seule les « butinés » des perspectives plurielles qui l’appréhendent.

Retour à la cuisine de l’artiste : la voilà à ses fourneaux. Pâte à modeler (« Pungo »), soit ! Une forme après l’autre, patiemment ; des centaines de fois ; et par inflexion progressive des morphologies. Puis, une saisie photo après l’autre ; soit, encore. Mais pourquoi donc, et pour mieux suivre une évolution morphologique, ne pas rester au même endroit, dans un espace de coordonnées stables ? Comme on le ferait au cinéma … Ce qui s’appelle un « plan ». Le plan est quand même l’unité de base de la grammaire cinématographique, non !? Dans la pièce de MTS le voilà qui, plus souvent qu’à son tour, se dérobe sous nos pieds ; retire son tapis ; dérobe le sol d’où pourrait s’enlever un … univers (fut-il celui d’une fiction). Divers procédés y concourent : des panoramiques qu’on dira « larvés », avalés, à peine installés, par d’autres panoramiques. Des glissements latéraux d’objectifs, qui viennent diffracter et évider des formes, déjà peu assurées d’elles mêmes. Un chahut intempestif qui bouscule, de saisies horizontales en saisies verticales … En poussant cette logique à sa limite, on y tendrait vers une règle : à chaque saisie, faire correspondre un point de saisie différent …

S’il fallait nommer d’un mot la règle de cet entêtement, on irait chercher du coté des figures de la fouille ou de la sonde … on penserait, par exemple, à la « camera stylo » d’Alexandre Astruc, ou à certains films de Cassavetes, (exemples idoines de « cameras subjectives »)  dans lesquels, de venir à la rencontre de formes, on ne sait jamais ce qui est décisif : de la « chose » rencontrée, ou bien du  mouvement qui amène à la rencontre … Mieux : pensons à ces univers (spéléologiques ?) qui surgissent à la pointe fine d’une « lampe torche ». Dans lesquels chaque saisie (l’une après l’autre, et sans lumières sur le contexte)  provoque la venue d’autres angles de saisie, d’autres cadrages supputés. Si bien que, dans ce tempo (tyrannique !), la moindre rencontre d’objets (sortis de l’obscurité) déstabilise l’univers préexistant à la rencontre ; le mine de son intérieur. Un monde inchoatif, de valses d’univers … Ainsi, sur le premier « plan » sur lequel s’ouvre la pièce, que dire ? Est-ce la caméra qui tourne autour d’objets stables – tables et chaises bien ordonnées – ou alors est-ce que ce qui s’y figure ce n’est pas plutôt la valse des meubles eux mêmes, leur ronde, qui est celle du quotidien et qu’il nous faudra tous apprendre à danser, dans le battement entre un « s’approcher » et « s’éloigner », mitigé par un peu de « rester » ?? …

Des lueurs de vie. Soit ! Un patient échafaudage, modelage. On a eu une pensée pour les mains de l’artiste qui modèlent, qui disposent et re disposent, placent et déplacent, qui infléchissent et rectifient les postures des « sagome » … On a dit qu’il fallait aussi penser à son oeil, éminemment mobile, cursif (corsivo) qui recueille et cadre ces flux visuels et décide de déposer sur la pellicule, telle saisie plutôt que telle autre, telle focale après telle autre, tel « panoramique » après tel autre …  qui décide, en fait, d’offrir à toute rétine future (et « la sienne » pour commencer !) cette couture là (et celle là !) d’éclats visuels à  déposer sur la « petite peau » (la pellicule) qui gît, là, dans l’intérieur profond de la vidéo-camera … et comme son âme mécanique …

De tout ce qui précède, on peut bien dire que l’accent y est mis sur un déplacement du vu au visible (et à son émergence)[3]. C’est à dire sur ce qui, dans le vu, vient, mais aussi bien s’efface … Mais il faudra ajouter ici quelque chose de plus : que c’est toujours par un autre visible qu’un visible est délogé et comme « mangé » ; que, si les apparitions disparaissent, c’est parce qu’elles sont recoupées par d’autres apparitions qui, elles, surgissent. Et que cette valse de ces apparitions est plus forte, plus pressante ; et qu’elle impose sans doute son impatience par peur que l’apparition précédente ne s’éteigne ; et pour mieux en sauver la lueur qu’elle contenait, cependant : si ! Pour la réanimer … Mais quel est donc ce « pays » où les apparitions ne cessent de se chasser l’une l’autre, mais pour mieux sauvegarder ce qui les anime … les animait ?

Puis le son, et ses éclats propres

Maintenant, fermons les yeux, et pour mieux ouvrir nos oreilles … (l’artiste dût-elle souffrir de cette liberté prise avec son « oeuvre »[4]) … Ouvrons nous donc à ce qui arrive comme sonorités, à ce qui dans nos tympans vibrent, à simplement les entendre … et concentrons nous sur l’essor de ces vibrations sonores. Deux choses viennent.

Une première dont on dirait, paradoxalement, qu’elle ne « vient » pas, parce qu’elle est là, déjà et dés le départ, puis en continu et jusqu’à la fin, et tout du long égale à elle même. Une ritournelle lente … un « lent retour » … Un espace plan (enfin un !!) mais … musical … Il se trouve que « piano » est l’instrument sollicité, et que les notes qui s’y égrènent, placides, sans emportements d’aucune sorte (« à la Glenn Gould »), tournent en boucles (2, 3, 4 ?) donnant alors le sentiment d’un immuable dont la pièce se déduit comme n’en n’étant qu’une manifestation passagère … Ou, pour mieux dire, saluant son retour …

Une deuxième – deuxième piste sonore – dont c’est peu dire que, là aussi, les sons qu’elle colporte « viennent », mais ceci parce qu’il y aurait un temporalité propre du « venir » (autorisant par exemple l’anticipation) et qu’ici, voilà qu’elle se trouve privée de tout espace de déploiement ; court-circuitée. Surgissement, irruption, « écorche » (du tympan), en décriraient plutôt les modalités.  Des pas, sortis de nulle part, résonnent de toute leur charge pondérale, outre que plantant les clous de leurs talons au plus profond, de se répéter ; puis le cristal du son des cuillères sur les parois nacrées d’assiette de faïence vient, certes, ajouter une note mozartienne … n’était le compulsif que leur crissement laisse entendre … ; puis, voilà qu’une horloge enfle son tic-tac, ogresse sonore dévorant tout ce qu’il y a d’audible, l’engouffrant dans le puits profond de son temps, à elle : il est 10 heures [5]! Suite à quoi, un téléphone vrille l’oreille, et sans pitié aucune pour elle, de vriller là aussi plus profond – et dans le vide ; Plus loin une porte résiste et grince, comme une écharde le ferait dans une peau tendre … Cependant que le rythme lent d’un sommeil profond – une respiration ronflée – ramène un dernier éclat sonore …  Ajouter enfin, que, au gré de la bande son, quelque chose comme la rumeur du monde se fait entendre, dans un varia d’intensité isomorphe aux variations de luminosités déjà évoquées …

De ces éclats sonores on dira bien qu’ils viennent se déposer – tantôt les irritant, tantôt les calmant – sur les membranes de nos tympans … Mais ces tympans, comment s’accommodent-ils du vrac sonore qu’on leur inflige ? Et particulièrement de cette tension extrême entre une mélodie (et de surcroît en boucle !), avec cette promesse de calme que toute escompte mélodique importe en nous – celle de nous autoriser à « être la musique aussi longtemps que la musique dure » – et, de l’autre, l’intempestif de sons qui font irruption brutalement, voire, à l’occasion, se marchent sur les pieds …

De cette auscultation de la bande son, on conclura, de manière lapidaire, qu’elle est cependant dotée d’une homogénéité profonde, fusse-t-elle par défaut : en un mot « rien n’y vient » … Rien n’a le temps de simplement y arriver ; rien ne nous met donc en position de « saluer » une arrivée de manière à ce que, nous inscrivant dans son présent, nous puissions en être le contemporain. Ces sons nous arrivent bien plutôt par plaques qui n’ouvrent sur rien d’autre que sur leurs espaces propres de résonance. Et nous ouvrant à ceux-ci nous y prennent, nous y plongent … Rien n’y vient vraiment, mais sans doute parce que tellement y … revient.

Raccorder images et sons

Cette fois ci, donc : « toute oreille » et « tout yeux », et pour faire honneur – et vraiment ! – à la composition audio visuelle qu’est cette pièce. Enfin, viendrait le temps du raccord.

En première saisie, on distinguera, là aussi, deux échelles de raccords. Une première échelle, ample : certaines sources sonores appartiennent en effet à des lieux « dédiés » : les cuillères à la salle à manger, les ronflements aux chambres ; horloges et téléphones à ces espaces domestiques (à l’époque) un peu interlopes : entrées, par exemple ; vestibules … Dans le tremblé clignotant des évanescences de corps, la piste sonore marque ainsi les transitions d’un espace à l’autre ; donne, d’une certaine manière, sa consistance à chaque séquence … permet en tout cas de mieux les individuer. Mais le son fait encore mieux à cette échelle. Il exalte des qualités d’espace là où le visuel échoue : ainsi du sens du volume – quelque chose de spatial, non ? Un produit longueur x largeur x hauteur ! – mais que le son rend tellement mieux que l’image ! … Voyez /écoutez donc, comment ici il évide l’espace via la qualité de réverbération qu’il révèle, par exemple, dans le sillage sonore du martèlement des pas …

Mais nous voilà alors, resserrant la focale des rapports son/image sur un « pas de temps » plus court … celui des pas, précisément (que l’on entend) et des corps (que l’on voit) dont les pas, les pieds, « sont » … dont, en principe, les sons devraient « émaner ». Or, à cette échelle son/image plus ramassée, ce qui vient alors c’est moins le raccord entre un corps (vu) et les sons qu’il émet que l’inverse.  Tout d’abord, ces pas – via leurs sons- arrivent toujours avant que l’image du « passant » ne s’en forme. Ensuite, et pour aggraver le tout, quand l’image arrive, quand les corps arrivent à la vue, ils échouent à mettre le visible de leurs pas dans l’audible de ces mêmes pas, de leur scansion propre … Ils ne sont ainsi jamais le foyer « réaliste », d’où procèderaient, naturellement,  dans le sillage de leurs faires, images et sons. Des images, nous avons dit la précarité « ontologique » qui en émane. Mais des sons qu’ils émettent (les pas, surtout !) il faudrait dire qu’ils sont infiniment plus puissants qu’elles, si bien que ces corps en  apparaissent comme plus transportés par eux qu’ils ne les transportent … Ils étaient là – ces pas –  avant eux … Si donc, vous ne pouvez affilier, attribuer, référer les éclats sonores et visuels comme la robe sensorielle qui suinte de ces  « existants » ; qui émane de ces homoncules et « signe» leur effectivité d’existence, alors quoi ?

L’inverse ! Parce qu’il n’y a pas le choix ! Il vous faudra alors affilier, attribuer, référer, suspendre les corps/lueurs eux mêmes et leurs évolutions à ces éclats primaires dont ils ne sont plus que les pantins (« burratini ») ; les « rejetons » (les polloni). Non pas des « animant » mais bien plutôt des « animés », des « réanimés ». Des entités (là aussi il n’y a pas le choix !) qui sont, en quelque sorte, « préexistées ».

Borges dans une courte nouvelle (« La rencontre », in Eloge de l’ombre) nous conte cette fable d’un combat acharné entre deux hommes – à chacun son couteau ! – où il s’avère que ce sont moins les hommes qui se battent que leurs couteaux eux mêmes;  ceux-ci leur venant du fond des âges et selon les clans auxquels ils appartiennent. Un antique querelle qu’ils ne font donc que … répéter. De même ici, ne voit-on / entend-on pas que les homoncules sont plutôt mus qu’ils ne se meuvent ?

Mais par quoi donc … sinon par le retour, par le remous d’un passé, d’un pur passé, d’un passé qui passe … mais qui ne cesse de revenir ; en autant de surgissements vacillants d’immémorial … Ainsi des pas reviennent-ils  (et des sonneries ! Et des ronflements ! Et des portes qui grincent …) ; et ils sont, tous, des « enfouis de temps » qui font et refont, de nouveau, surface … et qui arrachent à l’obscurité leur lumière vacillante … Ils sont bien l’immémorial même qui enclenche la danse de la mémoire. Mais comme prise dans les rets d’une lanterne magique et soufflée par de lointaines orgues …

Luminescences, Réminiscences : Un Rendez Vous au  … pays de la mémoire et de ses danses muettes

Voilà, c’est bien de ce pays, dont la pièce de MTS est « l’ambassadrice »  et vers lui qu’elle nous guide. On peut  maintenant le nommer ! Il est celui de la « lampe torche » où les remémorations fouillent le passé, l’arrachent au néant, sautant d’un éclat de souvenir à un autre, d’une fluorescence à une résonance, dans l’espoir de les raviver; de les fixer ; une bonne fois pour toutes ! Parce que, n’est-ce pas, dans un souvenir, toujours un autre souvenir vient à trembler – et par contagion ; et que le tremblement de ce second vaut toujours promesse de prospérité (sinon d’ancrage définitif) du premier. N’est-ce pas ainsi que nous procédons lorsque nous essayons de « fixer » nos souvenirs ? Et ce serait pourquoi personne n’est quitte – dans ce mouvement de la remémoration, dans cette coulée unifiante de « mémoire active » –  d’essayer de les enchaîner, de les lier l’un à l’autre. Et c’est sans doute de cette étoffe là, de ce lier là,  qu’est constituée la « membrane intime » qui vient résorber le disparate des éclats sensoriels de la pièce dans le continu de leurs reprises, dans la coulée de leurs enchaînements … [6]

Cependant qu’en sous main quelque chose de plus profond, non seulement gît, mais  pulse cette danse des souvenirs … Ou bien, en amont de ces remontées dans le temps, qu’opèrent les remémorations, quelque chose de plus puissant s’interpose qui serait de l’ordre du retour du temps lui même, et de ce qu’il nous fait, en nous ; ou, pour mieux dire, de notre immersion en lui. Comme si nous nous laissions enrober par un nuage de pur passé, qui viendrait là, et alors que nous sommes tout affairés à visiter le temps :  une nappe qui viendrait, elle,  à nous visiter … nous.

De la pièce de MTS on dira volontiers qu’elle fonctionne comme un « rendez vous » que nous aurait fixé l’artiste, et pour que nous la rejoignions en ce lieu énigmatique où il arrive que le temps lui même, c’est à dire le passé pur, vienne nous visiter. Ces moments là, parsèment sans doute chacune de nos vies et nous les consommons sans doute sur un mode solipsiste …  puisqu’ils nous coupent du monde … Mais s’y rendre ensemble ? Si bien sûr, rendons nous y donc ! Renouant donc, ensemble, avec ce qui d’habitude nous sépare … [7]

Mots, maintenant

Après images et sons, mots maintenant. Peu de mots, en fait, venant en quelque sorte sous-titrer les séquences et les juxtaposer : quatre ; et tous des verbes (« s’approcher », « s’éloigner », « rester », « observer » …). Et, de fait, peu à en dire, sinon (mais cela est crucial) à s’arrêter sur l’indécidable de leur mode grammatical … Faut-il, en effet, les considérer comme des impératifs ? « S’approcher! » ; « s’éloigner ! ». Impliquant donc une volonté, au moins interpelée ? … Ou bien les considérer comme des infinitifs : juste un « s’approcher », un « s’éloigner » ? … Un mode parfaitement impersonnel et qui a la propriété magique de propager à l’infini le temps durant lequel l’action du verbe … vibre.

Mais un mode  qui, de surcroît, évide – et paradoxalement – toute action évoquée de la présence d’un acteur, puisqu’il n’y a pas d’acte sans intention, et d’acteurs autres qu’intentionnés (choisissant de faire ceci plutôt que cela, et c …). Ici, et pour l’essentiel, on a juste, une succession de déplacements, de trajets que rien n’oblige à inscrire au compte d’une quelconque intention. Juste une grammaire rudimentaire, prosaïque, « à la Beckett » [8] … Un graphique possible de nos vies. Ou bien, le coté « marelle » (« gioco di campana ») de celles-ci : d’une case à l’autre, d’une chambre à l’autre …[9] Plutôt l’allant de soi de nos routines.

Deux titres et comment choisir ?

La pièce de MTS a, en effet, deux titres, l’un en allemand, l’autre en italien : ils ne reviennent pas tout à fait au même. L’italien parle de « décisions », certes en chambre … l’allemand, lui, parle de « possibilité de la décision ». Nuance … Des deux nous choisirons la version germanique.

En effet, que certains conjuguent à l’impératif les séquences qui s’enchaînent dans la pièce (culminant notamment dans un « répond ! » ou « ne répond pas », à ce téléphone qui vrille) on le conçoit. Et le poids (d’angoisse) de cet « imperator » qui « impérative » dans l’impératif on le sait tous ! Mais je crains que, si l’on se focalise sur lui, on perde de vue tout ce à quoi, d’ordinaire, il nous arrache, et avec quoi la pièce nous a permis de, miraculeusement, renouer … Si, vous le savez bien ! Ces moments où, débrayant (« disinnestando ») de nos marelles, nous laissons le fond des temps venir nous visiter. C’est donc plutôt la torpeur de cette béatitude mélancolique dont on aimera prolonger le souvenir … à jamais.

 

SB

 

 


[1] Lesquelles, certes seront reprises et filmées … en 9400 images …

[2] En référence au « Mal vu, mal dit » de Samuel Beckett, et pour marquer les résonances qu’il y a entre l’esthétique Beckettienne et celle que nous propose MTS (on y reviendra).

[3] La grande énigme qui hante et pulse l’histoire de la peinture de la fin du 19ème à cette toute fin du 20ème d’où nous vient cette pièce : en l’an 2000. Pour la suite, c’est une autre  affaire …

[4] Pour en faire l’aveu, tout le segment précédent sur la « bande image » a été écrit en supprimant la bande son de l’oeuvre, et ceci par la grâce de la touche « F10 » qui autorise à une telle ascèse … Fermer les yeux, à contrario, est praticable sans touches « F quoique ce soit » …

[5] Du matin, ou du soir, on ne le saura pas …

[6] On imagine bien, dans une version « neurosciences » de la chose, les cascades synaptiques que ces mouvements enclenchent, et comment ces éclats y circulent, de liane en liane, et dans ces jungles opaques que sont nos cerveaux …

[7] Dans « Différence et répétition » (PUF, Paris, 1972, p 115) Deleuze, parlant de « Vivre l’être en soi du passé », se pose la question de comment « sauver pour nous » cet « en soi ». C’est à ce point qu’il saute du Bergson de « Matière et mémoire » au Proust de « La recherche ». D’un philosophe à un écrivain, donc. Pareillement, dans son « Essai sur la fatigue » (Gallimard, Paris, 1991) Handke (pages 24 et seq) exhume cette forme, à la fois rare et évidente, d’un « pour nous de la fatigue », sensation, en principe « pour soi ». Après l’épisode d’une séance de battage du blé dans la ferme familiale, il écrit: « Nous étions assis – dans mon souvenir, toujours, dehors au soleil de l’après midi – et en parlant ou en nous taisant, nous goûtions la fatigue commune, comme rassemblés par celle-ci … Un nuage de fatigue, fatigue esthétique, nous rassemblait en ce temps là … » (pp 26-27). Cette transmutation du « pour soi » en « pour nous », la vie elle même peut donc  bien l’accomplir, mais un écrivain, un artiste, n’est pas de trop pour la réanimer; pour nous y donner rendez vous, par la grâce de ses écrits, ou bien celle de ses … vidéos.

 

[8] Encore !

[9] On conseillera vivement, parlant de Beckett, d’aller voir son « Quad », exemple ultime, lui, d’une marelle … métaphysique (rechercher sur Youtube : « QUAD I+ II »

Die Entscheidungs möglichkeiten o Le decisioni in camera2020-07-28T17:22:32+00:00