Tutte le pause del mondo

9’30’’ , colori,  sonoro , 2006

undici coppie di parlanti undici lingue diverse ripresi durante una conversazione spontanea che, come tutte le conversazioni,  presenta frazioni di silenzio, di pausa.

 

Ciò che appare privo di significato, come i momenti di silenzio in una normale conversazione tra persone, in realtà porta con sé moltissime informazioni semantiche.  Nel momento in cui si dà, la pausa diventa soggetto  con una propria forte identità e valenza: lo spazio tra le persone cambia, l’aria si tende,  si carica di attesa, oppure diventa rarefatta, o ancora  la luce si stempera. Il mio è il tentativo di mettere a fuoco il “tra”, quello che sta in mezzo e che pare trascurabile. Nella ridistribuzione dei pesi, il vuoto assume il rilievo dovuto, mentre il pieno conquista una diversa leggibilità: la lingua viene percepita in quanto superficie nella sua stupefacente arbitrarietà, un pieno che si dà nella relazione con il vuoto.  Con Samuel Beckett: “Quanti silenzi di tre secondi per fare un silenzio totale di 24 ore?”

Anche in questo caso, come in altri lavori, ho utilizzato un espediente per preservare naturalezza e spontaneità delle persone riprese.

 

Mariateresa Sartori, Tutte le pause del mondo, Galleria Michela Rizzo, Venezia, 14 luglio – 9 settembre 2006

Tutte Le pause (e i contatti) del mondo

Riccardo Caldura

 

L’atmosfera, il tono di quest’ultimo video, come di altri di Mariateresa Sartori, ha qualcosa di analitico che di primo acchito può disorientare.

Il video è scandito in modo lineare e coerente come se si trattasse della messa insieme di materiali a carattere documentativo. Non vi è alcuna particolare indulgenza nell’ uso del mezzo, nel senso che è non vi si tro­vano manierismi, tecnicismi, né una autoriflessione sulla natura del mezzo stesso. Il video è appunto un mezzo e, come tale, tende a ‘scom­parire’ nell’utilizzo che ne fa l’autrice. È uno strumento efficace, serve allo scopo, in modo funzionale. E lo scopo è dar forma e comunicazio­ne, la meno retorica possibile, a ciò che viene osservato nel campo della vita’ (ricorro a questa espressione in analogia con una definizione di un dipinto in Jasper Johns: Field Paiting, 1963-64). Ciò che agisce nel ‘campo della vita’ è dato dall’interazione affettiva, emozionale. Il video diventa così una sonda che osserva dall’‘interno’ una situazione emozio­nale e la documenta. Dall’interno: intendendo che il campo di osserva­zione privilegiato ha a che fare con la vita e anche con la biografia del­l’autrice, ma in maniera tale che sarebbe inutile pretendere di ritrovar­vi elementi meramente soggettivi, personali. Il ‘biografico è materiale trattato analiticamente: la voce del figlio che impara a leggere alla fine del video «Visto da qui. Progetto lettura ostacolata»; la silhouette del padre, e di se stessa, nelle tele di anni addietro, particolari della propria abitazione, come set di Tutte le pause del mondo o qualche famigliare che compare fra gli altri protagonisti del medesimo video. Il primo passo forse è stato proprio questo: osservare in maniera ‘spersonalizzata’ quel che vi è di personale, assumendo una distanza, quella permessa dallo strumento, negli ultimi anni soprattutto la videocamera, come se lo strumento permettesse di detergere lo sguardo dalla opacità del coin­volgimento soggettivo. L’esito di questa presa di distanza non è in alcun modo da confondere con la freddezza o con 1 indifferenza. Lo sguardo analitico credo tocchi piuttosto il piano della pietas, che non è da inten­dere come il ‘risvolto’ positivo di contro al dissezionamento, così fre­quentato artisticamente, della sfera affettiva e del contatto intrapersona­le. La pietas è piuttosto il riconoscimento della condizione umana, lo sfondo che appare essendosi applicati a quel particolare campo di osser­vazione costituito primariamente dalla propria e altrui vita. La pietas mi sembra essere l’esito di una posizione limpidamente laica che viene vis­suta, e dunque restituita sul piano formale, come una intima assunzione di responsabilità verso gli altri, essendo il cerchio degli ‘altri’ ormai non più riferibile ad un Altro. E gli altri sono da intendere non solo come i ‘propri’ — coloro che appartengono alla sfera esistenziale e affettiva per­sonale – ma come ‘tutti’ gli altri. ‘Tutti gli altri’ entrano nell’ultimo video, si siedono sul divano nella abitazione dell’autrice, di fronte alla sua videocamera; si siedono sempre in coppia, perché è la relazione e l’interazione che interessa all’autrice; ‘tutti gli altri’ si sondano recipro­camente per cercare una possibile risposta comune alle domande for­mulate in un questionario. Il questionario, predisposto nelle diverse lin­gue corrispondenti ai paesi di provenienza degli intervistati, non mira a sondare alcunché di particolarmente rilevante dal punto di vista statisti­co; di fatto è una richiesta di informazioni che non ha come scopo pre­cipuo il raccogliere informazioni. E’ una sorta di sondaggio di opinio­ne che mira piuttosto a scrutare ‘il modo’ di esprimersi dell’opinione stessa, cioè le incertezze, o le sicurezze, di fronte ad una richiesta inu­suale, la cui risposta non ammette sfumature, prevedendo solo le opzio­ni vero/falso. Come ci si accorderà per rispondere a «Entrando in casa di amici è antiquato dire ‘permesso’?». Se eventualmente ci si potrà accordare, o se invece non si dissentirà l’un dall’altro. E come si espri­meranno l’assenso, il dissenso, la perplessità? E vi sono differenze da rile­vare qualora gli ‘tutti gli altri’ chiamati davanti alla videocamera, siano di cultura medio-orientale piuttosto che nord-europea, oppure giappo­nesi piuttosto che americani? La procedura per predisporre il dialogo di volta in volta fra due persone delle più diverse provenienze è basata su una identica sequenza di domande, tradotte nelle varie lingue. Procedura che sembra avere le caratteristiche di un test di comprensio­ne linguistica, oppure di un’indagine sociologica sulle differenze di espressione nelle varie culture: una sorta di indagine su quella sfera extraverbale costituita dallo strato dei gesti, degli sguardi, o dei silenzi prima di una risposta. In questo senso non è certo casuale che il mezzo scelto dall’autrice sia il video, cioè sia una forma visiva, e non sia invece il predisposto questionario, che nello svolgersi dell’azione viene ripreso di rado, così che non è facile inizialmente capire cosa susciti il dialogo fra le persone. Non è il linguaggio l’oggetto principale dell’a­nalisi dell’autrice, ma l’extraverbale, il gesto, il heve sfiorarsi delle mani lo scambio degli sguardi. Cioè l’autrice colloca su un piano diverso dà quello della lingua la questione, centrale per il logos e per il sapere, del vero/falso. Si preoccupa di restituire, visivamente, lo strato della com­plessità che si mostra quando due persone cercano un accordo, interro­gan osi 1 un l’altro. Dunque, considerando il complessivo approccio analitico siamo probabilmente di fronte ad un repertorio in fieri dei modi non verbali, che sostanziano la comunicazione intrapersonale.

na sorta di atlante del comportamento in una situazione data, a cer­care delle costanti, che, nello specifico, rivelino, al di là delle diverse lin­gue, uno strato più profondo della condizione umana. E della condizio­ne umana colta in quel momento nel quale due persone cercano una possibile risposta comune.

Ciò che ha attirato l’attenzione dell’artista – la pausa della conversazio­ne, che e divisione e ponte, interrogazione e ricerca, sospensione fra il proseguire della linea conversativa o sua deviazione – evidenzia bene quale sia il punto di contatto fra le modalità della comunicazione intra­personale, il taglio documentaristico-analitico e l’ambito di ricerca nel quale si colloca Mariateresa Sartori: quello artistico.

Quel che compete all’artistico, nel novero delle discipline e delle prati- c e odierne, e costituito paradossalmente dal suo non risolversi in una specificità Cioè quel che intendiamo con pratica artistica è una pratica concetta e e produttiva dalla difficile definizione. Una pratica nella qua e si può ricorrere, come nel caso della Sartori, ad approcci analitici risolvendoli però in una ‘forma’ di comunicazione (non saprei descri­vere altrimenti il materiale proposto) così che quella condizione umana che le varie discipline analiticamente segmentano, possa essere restitui­ta alla sua generalità. Condizione umana data dal non sapere e dal cer­care una reciprocità: questo sembra evidenziare la sua osservazione del campo della vita’. Credo che la pausa in cui due persone precipitano per un momento quando si interrogano senza sapere se l’esito sarà assenso o dissenso, abbia molto a che fare con la questione della forma, e dunque dell’artistico. Il contatore, strumento così ‘scientifico’ e asetti­co, che compare nel video della Sartori misurando il tempo di durata del silenzio nella conversazione, è accompagnato dalla evidenziazione dei profili delle due persone che stavano parlando. Ciò che viene così in primo piano è il conteggio del silenzio, e simultaneamente la ‘forma’ che questo assume tradotto nella ripresa ravvicinata dei volti.

Questa mattina ho reinserito nel lettore dvd lo stesso video, lo guardo ancora una volta. E semplice e diretto: la sequenza dei colloqui si apre con un’immagine grafica del suono vocale, con il contatore che scorre, poi seguono i dialoghi, e l’evidenziazione della durata delle pause è sot­tolineata dal sovrapporsi del contatore elettronico. In realtà ci si accor­ge osservando con più attenzione che il tempo viene misurato in modo preciso quanto approssimativo: l’oggettività della misurazione si flette assecondando la particolare condizione del rapporto fra le persone, si flette alla particolare circostanza del loro reciproco relarsi: la misura della pausa può così dilatarsi, e la somma finale, (ammesso vi sia una somma finale), è data dalla misurazione non solo oggettiva, ma anche qualitati­va delle diverse pause. Perché non vi è una standardizzazione possibile del ‘vivere’ la pausa: si guarda l’altro, si guarda altrove, si guarda il foglio, ma come se non lo si vedesse. E la misurazione di questo momento perde di ‘oggettività’. Il tempo si misura, si dilata, si flette quando non c’è azione; in un passo tratto da un testo particolarmente significativo per l’autrice, ci si immagina che le pause e i silenzi, sommandosi, riem­piano l’intero arco del giorno. L’insieme delle ventiquattro ore costitui­rebbe una grande pausa nella quale non vi sarebbe più azione. Il dila­tarsi del tempo, la sua sospensione, evidenziata formalmente nel video dal vuoto fra i volti, è il venir meno dell’azione. In questo senso un giorno fatto di sole sospensioni rappresenta un’immagine molto effica­ce di quello stili frante che a suo tempo fu, per la pittura, la natura morta. Immagine delle cose, cristallizzata in un luogo/momento dove niente più accade, dove non vi è azione. Il video della Sartori si apre con il conteggio numerico della durata delle pause, pause dell’agire e del con­versare, però non si conclude così. E considerando la fine del filmato, verrebbe da proporre all’autrice una variazione del titolo, non più solo tutte le pause del mondo, ma anche tutti i contatti del mondo. Perché la pausa, come rivelano le sequenze finali del suo lavoro, lascia accadere il con­tatto; la pausa è sì cesura ma è anche ponte; amplifica lo spazio fra le persone, ne dilata per un momento la distanza, le rende vicinissime ed estranee lungo il sentiero di un risposta da cercare, ma alla fine è in quello spazio sospeso e dilatato che avviene il contatto, che la mano sfiora colui o colei che ha accanto. E il video registra, in una condizio­ne simil-sperimentale, la fenomenologia della relazione fra le persone. Relazione di reciprocità, il contatto è avvenuto, la sospensione non ha solo annullato per un momento il rapporto fra le persone, l’ha nuova­mente reso possibile. Le immagini di un Lui e di una Lei, che caratte­rizzavano la ricerca pittorica della Sartori negli anni ’90, ritrovano, nel video (mezzo che sottolinea l’intima coerenza della sua opzione media­le degli ultimi anni) quel contatto che – di un lui e di una lei, e di tutti gli altri — ‘anima’ la reciprocità.

Entrando in casa di amici è antiquato dire «permesso»?

Venezia, giugno 2006